Le Final Eight di Coppa Italia? Più interessanti dell’All-Star Game della NBA. E a dirlo non è stato un italiano o uno dei classici hater dello spettacolo della pallacanestro a stelle strisce.
A scriverlo è stato Zach Messitte, politologo, accademico e giornalista, che nella sua vita ha anche collaborato al progetto Basketball Without Borders, il programma culturale della NBA. Lo ha scritto sul New York Times, nel 2019 (QUI è ancora possibile leggere l’articolo). Gli appassionati di pallacanestro americani «dovrebbero prendere nota di come gli italiani creano un drama sul parquet in febbraio».
Il fascino che questo torneo, definito «una scarica di adrenalina a metà stagione» («a midseason shot adrenaline»), ha generato in Messitte deriva da alcuni fattori: lo spezzare una lunga stagione con l’assegnazione di un trofeo, l’imprevedibilità della formula su partita secca e quindi la possibilità per quelli che gli americani definiscono small markets, ovvero le squadre con budget non di prima fascia, di sovvertire il pronostico e vivere una cavalcata da sogno. A questo proposito l’esempio portato è proprio quello dell’Auxilium Torino del 2018, partita da testa di serie numero 5 e allenata dall’attuale viceallenatore della Openjobmetis, Paolo Galbiati. (Messitte ancora non poteva saperlo, ma poi nel 2019 e nel 2020 vinsero le teste di serie 4 e 8).
Eppure un torneo di pallacanestro del genere gli americani ce l’hanno, seppure non a livello di NBA. Si tratta della cosiddetta March Madness, la fase finale del torneo NCAA, a cui partecipano i college, che ogni primavera manda in delirio tutti i fanatici della pallacanestro oltreoceano. La Coppa Italia è un torneo che, secondo Messitte, è capace di regalare «March-Madness like upsets», dei risultati contro pronostico in stile March Madness.
Una squadra a vocazione americaneggiante come la Openjobmetis può trarre un vantaggio da questo parallelismo? Gli otto giocatori parte dell'attuale rotazione di coach Brase hanno tutti intrapreso l’avventura collegiale americana. Se è una cosa quasi scontata per i cinque stranieri, sorprende come anche i tre italiani De Nicolao, Woldetensae e Caruso abbiano questa esperienza nel bagagliaio.
Ma quanti biancorossi hanno effettivamente giocato nel torneo NCAA? Tre è la risposta.
Il più navigato a questo livello è Tariq Owens, che, nel 2019, con la maglia di Texas Tech fece registrare 6 presenze a 8 punti e 6 rimbalzi di media in poco più di 28 minuti. Uno dei suoi compagni di squadra era Davide Moretti, contro cui si troverà di fronte stasera. La cavalcata del suo college si fermò solo alla finalissima, persa contro Virginia.
Virginia che dall’anno successivo accolse Tomas Woldetensae, che con i Cavaliers vanta una presenza al torneo NCAA, avvenuta al suo secondo anno. 4 minuti in campo nel primo turno, e sconfitta 62-58 contro Ohio.
Il terzo biancorosso con esperienza nella March Madness è Markel Brown, che con i Cowboys di Oklahoma State ha presenziato al torneo nel 2013 e nel 2014. Avventure effimere in entrambe le edizioni: sconfitte al primo turno contro Oregon prima e contro Gonzaga l’anno successivo. Markel fu comunque capace di segnare rispettivamente 16 e 20 punti, prestazioni che gli valsero la chiamata numero 44 al Draft NBA di tre mesi dopo.
A dir la verità ci sarebbe anche un quarto biancorosso con una brevissima esperienza nel torneo NCAA. 19 marzo 2005: Arizona sta giocando contro la University Alabama Birmingham. A 3 minuti dalla fine, con i Wildcats in netto vantaggio, il coach Lute Olson chiama dalla panchina un’ala ventiduenne. È suo nipote, e si chiama Matt Brase: una passerella di tre minuti, il tempo di far registrare un rimbalzo. Quattro anni dopo tornerà al torneo NCAA, sempre con Arizona, nelle vesti di assistente allenatore. I Wildcats vinceranno due partite prima di venire eliminati.