E alla fine sono almeno una cinquantina a fare “piazza” sotto il pullman targato Trieste.
Giancarlo Ferrero sembra papa Francesco che attraversa San Pietro senza papamobile: non sa più dove voltarsi per “benedire” l’affetto che riceve… C’è chi lo vuole cingere con le braccia dell’orgoglio, quello che si riserva a un fratellone quando ti ha reso davvero felice; c’è chi vuole una foto, l’ennesima, come se non ne avesse già almeno 1200 con lui, scattate in 8 anni di post-partita condivisi; c’è chi gli fa una battuta, chi un coro, chi gli chiede un biglietto per gara 3, chi gli ricorda la tripla di tabella messa in gara 1 e cataloga l’attimo come uno dei più belli vissuti a bordo di un campo da basket.
Anche perché: chi ha detto derby?
Lui c’è per tutti, nessuno escluso, con quella capacità una e trina di dare attenzione al mondo che lo ha sempre reso speciale, adorabile. Unico. C’è talmente tanto e talmente per tutti che… il pullman ancora un po’ se lo lascia a piedi. E allora, quasi fuori tempo massimo, un bacio a mamma e papà e poi via di corsa. Son 6 ore di viaggio, d’altronde, mica poche….
A un certo punto arriva anche Justin Reyes, e i cinquanta di cui sopra gli dedicano una standing ovation. Su una gamba sola («al 25% della forma») ha appena disintegrato quelli vestiti di bianco e di blu con un finale di partita memorabile, griffato da uno strapotere pantagruelico, assurdo rispetto al contesto, fatale. Sullo scontrino c’è scritto 32 punti, 8 rimbalzi, 5/7 da tre: un faro di luce per i suoi compagni, la stessa luce che ora si apre sul suo volto nell'apprezzare le cerimonie di chi se le è goduto per poco, ma lo ha ammirato con lo stupore vivo con cui si accarezza un fiore fragile, particolare, bellissimo. E allora, a vedere quei tratti da bimbo che quasi si commuovono, ti viene voglia di fargliene un altro di applauso, anche solo per rivederlo sorridere.
E non può mancare lui, Lord Michael Arcieri, un mondo di emozioni tumultuose dentro, non una goccia di sudore - nella serata più calda dell’anno, mentre noi siamo conci da sbatter via - fuori, slim fit elegante nel suo completo blu, praticamente una dispensa di compostezza anglosassone e savoir fair newyorkese fusi insieme. Davanti al suo passato lui si presenta con... una pizza da regalare, provocando l’ilarità generale.
Sì… risate, abbracci, sorrisi. Anche qui, anche con lui. «Un mese, Mike, ti ricordi? Ce l’eravamo detti seduti in quel caffè, quando tutto sembrava buio, quando la chiacchiera era necessariamente carbonara, quando la speranza era l’unico e l'ultimo appiglio concesso dalla tempesta che soffiava: basta azzeccare un mese…».
Qui Masnago, forza Varese. Anzi, no, scusate: qui Desio, ma forza Varese lo stesso.
Come in gara 1: tra i 6000 odiati ma encomiabili “cugini” (a proposito: che curva…) anche stasera di varesini se ne sono nascosti tanti. Tifosi, amici, dirigenti, allenatori: non si fanno nomi, tanto siamo tutti degli insospettabili… Venuti qui, in profonda Brianza, per tifare questa Trieste che ora la Serie A la può sognare davvero, anche se manca ancora l’ultimo passo che sarà quello più difficile. Questa Trieste che contiene un pezzo di Varese talmente fragrante da provare una gioia sincera nel vederla vincente e felice.
Il parquet dice 2-0, due gare fotocopia, dominate tecnicamente dai biancorossi del nord est ma tenute in bilico fino all’ultimo, affannoso respiro dalla forza disperata dei padroni di casa, caricati a molla da un pubblico davvero vigoroso: Ruzzier un califfo, il resto è tutta farina (e classe) made in Portorico.
Delle partite, però, risultato finale a parte, ce ne è fregato il giusto. La vera emozione è stata assaporare l’ennesima conferma di un paio di concetti: il basket è una famiglia di sentimenti veri, le persone speciali non se ne vanno dal cuore, nemmeno se le spedisci lontano, e Varese è ovunque, ovunque ci sia qualcuno che - sia per un giorno, sia per mezza vita - gli abbia reso onore.
P.S: Catà su.