Per uno per il quale il “pin” era sempre stato il diminutivo di Giuseppe, con cui il commediografo Giacosa era chiamato in famiglia, e il “pos” richiamava il pane raffermo di fanciullesca e dialettale memoria, entrare nell’oscuro mondo di internet, computer e telefoni cellulari è stato uno choc paragonabile a quello del tizio che per la prima volta al mondo udì la propria voce riprodotta su un cilindro di cera.
Oggi l’incubo del touch screen del cellulare mi segue come l’ombra di Banquo, sfiori lo schermo e ti escono siti neozelandesi o le temperature presenti in quel momento in Myanmar, l’invito a pagare la bolletta del gas o l’offerta imperdibile del Whiskas per la Nerina. Qualche volta lo smartphone si mette a cantare vecchi successi anni ’50, senza che il suo proprietario abbia deciso per Spotify o simili, ti dice che al momento Facebook non può scegliere l’italiano come lingua o apre di colpo Instagram alla pagina della libraia Pincapalla che mette in vendita l’opera omnia di Ken Follett.
E il maledetto impazza con super promozioni del gestore telefonico, della luce del gas e dell’acqua, dell’olio siciliano e del vino calabrese, con sms che intasano la memoria del telefono e frantumano definitivamente i cabasisi, già in riparazione per le migliaia di mail farlocche che ogni minuto fanno suonare il campanellino d’avviso del mac, mandandomi al manicomio.
Personalmente ho sfasciato una tastiera e una stampante dopo che avevo digitato a vuoto non so quanti username e password per entrare nel sito di Tizio o di Caio, naturalmente per pagare qualcosa e non ci ero riuscito, e tengo un martello da carrozziere a portata di mano con il quale prima o poi ridurrò lo smartphone in pezzetti grandi meno di un francobollo, per la rabbia di non aver trovato l’esatto codice Pim Pum Pam per tentare l’operazione che un negato come me prova a fare da solo, dopo aver chiamato per mezza mattina il numero verde che ovviamente non risponde o non è al momento abilitato. Del resto siamo in Italia, dove nulla funziona se non le tasse, le bollette e le multe.
Lo smartphone per me è il demonio, non ho mai capito come posizionare le applicazioni sulla schermata iniziale, mi compaiono sparse e se sono senza occhiali succede il patatrac, digito Samsung Health invece di Whatsapp (entrambe sono verdi) e mi si dice che non ho camminato abbastanza per oggi, i passi sono solo 1.230 invece dei 6.000 consigliati. Pigrone, se vai avanti così metti su pancetta e ti viene l’infarto.
Da mesi il dannato mi segnala che l’app Immuni non è più attiva, facessi qualcosa, ma non so cosa, IlMeteo.it annuncia cataclismi prossimi venturi perché sull’icona spunta il circoletto rosso, mentre Youtube mi informa di 987 inviti non ancora evasi e Facebook mi ricorda che sette anni fa avevo postato un disco di Nanni Svampa, però se voglio posso anche non condividere il memo, facessi come mi pare.
Mi salvo con Instagram, perché non ho mai capito come funziona, e per fortuna non mi capita di cinguettare, se non magari nel sonno. A completare lo scassamento di c. (che il vice questore Rocco Schiavone classificherebbe almeno di grado 8) ci si mette anche Telegram, che ogni due per tre avverte dell’ingresso di un nuovo adepto, dal fiorista Narciso a Marcello fisioterapista fino a non meglio identificate Irene e Chantal e a un tale Santi, tutta gente con la quale non ho mai avuto il piacere di condividere alcunché.
Che fare per salvarsi dalla dipendenza e dagli scassamenti continui e seriali? Seguire la celebre affermazione di Giuseppe Verdi: «Torniamo all’antico, sarà un progresso». La soluzione arriva da chi ha creato il danno, i produttori dell’infernale aggeggio, e dalle mode che, si sa, sono mutevoli come l’umore di una diva. Costoro mettono di nuovo sul mercato telefoni cellulari dell’età dell’antennetta birichina, quelli che sembravano ricetrasmittenti, tutti neri con il display verde acquario, veniva fuori il numero e poco altro, al massimo l’sms. La suoneria era quella e basta, niente touch screen se Dio vuole, astenersi perditempo. Si chiamano “feature phone” o per i più raffinati “dumbphone”, e pare servano ai millennial per disintossicarsi dall’uso smodato dei social, come si fa con boldo, carciofo e tarassaco per ripulire il fegato. Niente G5, Tik Tok et similia, telefonate e basta, come nel 1997, quando per ricaricare dovevi andare in banca.
Addio follower di Facebook e like di Instagram, continui sms, avvisi che l’amico/a compie gli anni e se ti dimentichi di mandare l’abbraccio o il fiore virtuale rischi il silenzio mediatico, whatsappate con fotografie delle vacanze, baci, bacini e fiorellini, incubi di bollette inevase e bollini rossi di allerte meteorologiche: una bella chiamata digitando con passione su tasti grandi come quelli per i bambini, e il telefono “taciturno” ti asseconderà come un cagnolino. Attenzione però: sul computer i social network sono lì con i canini affilati e, stando ai primi sondaggi, i drogati di smartphone riconvertiti al dumbphone poi vanno su Tik Tok, Facebook o Instagram a condividere le sensazioni provate con i nuovi “fliphone” a conchiglia di Nokia, immessi sul mercato con la stessa funzione dell’aglio per i vampiri. Il touch screen gettato dalla finestra rientra dalla porta degli i-pad e lì son dolori.
Chissà se i feature phone saranno soltanto una moda un po’ snob come quella del ritorno del vinile o delle pellicole. Per ciò che mi concerne, il martello da carrozziere è qui che mi guarda e, nel caso di uso rapido, non penso che poi sostituirei i rottami dello smartphone con un dumb, passerei direttamente al telefono di casa, che ho ancora con la rotella, modello fine anni ’60. È un vero amico, a distanza di anni ad alzare la cornetta mi dà ancora del tuuu…