Era il primo incontro della domenica mattina, quando con la mano in quella di papà - avevo sì e no 4 anni - mi avviavo con lui verso il centro, per il consueto giro del dì di festa: mezza messa seguita in piedi in fondo a Sant’Antonio della Motta, ascolto della banda in piazza Monte Grappa, “Americano” (ovviamente per lui, ma scorzetta di limone per me) al bar dei “pelatini” in via Marcobi, dove oggi c’è il Villa, e torta “Diplomatica” finale acquistata dal Buzzi, in via Piave.
L’Evaristo di solito tirava il fiato sotto il portichetto dello Chalet Martinelli, dove era posizionata una delle prime bilance pesapersone a moneta, che oltre a dire il peso regalava uno scontrino con l’oroscopo. Sistemata la bicicletta nera, forse una vecchia Legnano del dopoguerra, poggiando il pedale sul bordo del marciapiede, Evaristo faceva i conti su un taccuinetto dalle mille pieghe, cifre incolonnate scritte a lapis risultato delle vendite dei quotidiani alle edicole vicine, dopo averli recuperati all’alba dal treno delle Nord arrivato da Milano.
A me bambino, appariva altissimo, lungo lungo nel suo grembiule da lavoro grigio ferro che gli arrivava sotto le ginocchia, la testa con pochi capelli arruffati e la bocca quasi vuota, i denti superstiti ingialliti dalla nicotina di chissà quante sigarette, probabilmente Alfa o Nazionali. La voce era arrochita e il dialetto frizzante. Papà si fermava a discorrere, con lui, l’Evaristo faceva anche qualche lavoretto per la banca dove era impiegato, piccole commissioni volanti, così parlottavano insieme della schedina del Totocalcio e del Varese del Borghi, che avrebbe rifilato il leggendario 5-0 alla Juventus.
L’Evaristo era l’Evaristo e basta, non seppi mai nulla della sua vita, e forse anche papà la ignorava, la sua era un’apparizione domenicale, a una cert’ora sotto il portichetto dello chalet, e solo una volta lo vidi all’opera, in sella alla Legnano con sul manubrio una pila di “Corriere della Sera” e qualche “Gazzetta dello Sport”, mentre se ne andava a rifornire l’edicola sul ponte, tenendo miracolosamente in equilibrio tutta quella carta.
E l’«uèla Evaristo, ‘me la và?» di mio padre e la risposta «Tiremm innanz sciur Franco» del commesso in bicicletta con il taccuino bisunto in mano, sono ancora un ricordo vivido nella mia mente a distanza di oltre sessant’anni, assieme allo svolazzare del grembiule e al suo sorriso sdentato.
Che età poteva avere? A un bambino un uomo maturo sembra vecchissimo, ma l’Evaristo probabilmente non superava di molto i sessanta, portati male certo, per la vita dura che aveva fatto, e spesso mi sono domandato se avesse una moglie, una famiglia e dei figli, e cosa ci fosse oltre quel pedalare sghembo della domenica mattina.
Mezzo secolo dopo quegli incontri, diedi il suo nome a un gatto bianco e nero che amai come un figlio e morì investito proprio di domenica, sotto casa. Sono convinto che da qualche parte dell’universo i due Evaristo si siano ritrovati, e la loro energia arrivi a me come una carezza leggera, ad alimentarne il ricordo.














