Non tutti i migranti dell’Africa scappano dalla guerra e dalla fame: c’è chi vuole solo andare verso un futuro che crede migliore. C’è differenza tra i migranti che vediamo sbarcare sulle nostre coste provati dalla fatica del viaggio e dalla vita, e quei giovani che invece arrivano con il sorriso e il cellulare in mano per immortalare ogni momento. Se dei primi dobbiamo prenderci cura e fare in modo che arrivino in Italia sani e salvi, ai secondi invece possiamo provare a dire che può non essere la cosa giusta lasciare una terra dove magari le opportunità sono presenti, abbagliati da una prospettiva di vita che esiste solo sui social e alimentata da chi lucra sulle “spedizioni” della speranza, come chiamano i viaggi in gommone.
Mohamed Bara appartiene alla categoria dei migranti che sognano un futuro migliore. Anzi sognavano, perché per raggiungere “il paese dei balocchi” è annegato il 16 aprile nel naufragio di un gommone al largo della Libia, insieme ad altri 130 migranti. Una storia particolare la sua, ma assolutamente comune a moltissimi giovani africani. Aveva 14 anni quando ha lasciato il Burkina Faso su un pick up e ha attraversato il deserto, per raggiungere la Libia. «Un viaggio incredibile perché su questi camion sono stipate decine di persone. L’autista non si ferma mai e se per sbaglio qualcuno cade, è finito. Nessun autista frena per farlo risalire», ci racconta suo cugino Muba, 19 anni, studente di economia all’Einaudi che vive a Varese con la famiglia da 15 anni e Mohamed lo aveva conosciuto nel 2019 durante una vacanza nella sua terra di origine. Muba sa di questi viaggi perché ci sono un sacco di video che li mostrano. A noi possono apparire incredibili, ma è l’unico modo per muoversi tra i villaggi dell’Africa, quindi rappresentano un rischio che, là, vale la pena di correre, anche perché gli smartphone funzionano benissimo. Ed è forse da uno di quei video promozionali che i trafficanti fanno girare ai migranti prima di partire, per reclamizzare i loro servizi, e dove li si vede sorridenti per far credere che in fondo la sosta in Libia non è così come dicono, che Mohamed si è fatto convincere a partire.
Mohamed in Libia ci è poi arrivato sano e salvo e ha iniziato a lavorare come operaio. Una vita normale, anche se molto diversa da quella di un 14enne italiano. Lavorava e guadagnava abbastanza per vivere dignitosamente. Aveva un cellullare, come tutti gli adolescenti, e attraverso i social poteva seguire la vita degli influencer italiani e guardare ancora quei video martellanti dell’Italia meravigliosa. Cosa vuoi che sia, quando a 14 anni hai attraversato il deserto stipato su un pick up, fare un viaggio di qualche ora in barca. Perché, anche in questo caso, il mare è l’unico modo per raggiungere velocemente l’Italia. «Per ottenere i documento necessari all’espatrio, in Africa ci vogliono tempo, pazienza e tanti soldi. La documentazione richiesta non è mai corretta, ogni volta che si è pronti per consegnarla manca sempre qualcosa e tutte le volte bisogna pagare. Uno scafista costa meno alla fine, ti fa anche risparmiare tempo e per i documenti, poi si vedrà. Un viaggio per l’Italia costa mille euro, cifra che in pochi mesi di lavoro puoi tranquillamente racimolare».
Mohamed ha fatto lo stesso ragionamento, forse. Perché in realtà nessuno in famiglia sapeva della sua intenzione di partire. «Ci sentivamo spesso via WhatsApp, non mi ha detto nulla, ma non mi stupisce. Succede sempre così. Chi parte non lo sbandiera ai quattro venti. Della sua volontà era a conoscenza solo una cerchia ristretta di amici. Quando capitava di parlare della vita in Italia, io gli dicevo sempre che non era come immaginava lui. Non è l’Eldorado, aggiungevo. Si immaginava chissà cosa, tutto percepito attraverso i social».
I social. Da una storia pubblicata da un amico su Instagram Muba ha scoperto che suo cugino era scomparso. «Stavo cenando e guardando le storie, ho visto un collage di foto di mio cugino con delle emoticon con la faccina che piange e la scritta Rip. L’ho chiamato e mi ha raccontato tutto». Ovvero che Mohamed era sull’ultimo dei tre gommoni partiti con il mare in tempesta venerdì 16 aprile, quello che dopo ore in balia delle onde si è ribaltato: tutti i migranti a bordo, 130, sono annegati. Con loro anche una donna incinta la cui storia è altrettanto incredibile. «Suo marito cercava da mesi di farle avere i documenti per raggiungerlo in Italia comodamente in aereo ma alla fine, esausto, ha optato per la barca».
Sul naufragio e i mancati soccorsi si è aperto chiaramente un altro capitolo, con il consueto rimbalzo di responsabilità. Vite che si potevano salvare, forse prima ancora di prendere il mare. «Mohamed è sparito, il suo corpo non lo riavremo mai, e ancora faccio fatica a realizzare. Il suo nome è stato comunicato agli amici dagli scafisti, che prima di far imbarcare le persone ne raccolgono le generalità e si fanno lasciare un contatto da chiamare in caso di emergenza». A 17 anni, però, al pericolo non pensi. A 17 anni i rischi si corrono con incoscienza, soprattutto quando abbagliati dalla prospettiva di una vita meravigliosa. «E’ come se subissero un lavaggio del cervello. Anche gli amici con cui sono in contatto in Libia, mi parlano di una prossima loro partenza ad ottobre, nonostante quello che è successo a Mohamed».
Tutto nell’indifferenza totale di chi ignora le storie di questi ragazzi, finché non diventano un problema che bussa alla porta. Perché Mohamed sarebbe anche potuto arrivare sano e salvo in Italia con il sorriso sul volto e tanta voglia di fare, ma poi? «Poi, magari, sarebbe stato dipinto per per tutta la vita come una persona che magari "ruba" il lavoro agli italiani, perché questo me lo sento dire anch’io che vivo a Varese da 15 anni, con mio padre che qui lavora da 30, si è comprato una casa e ha cresciuto sei figli. In Ghana noi ci andiamo da vacanzieri e per trovare i parenti. Mohamed sarebbe rimasto deluso perché contando su di noi avrebbe potuto forse fare la stessa vita che faceva in Africa, dignitosa, ma senza il sole. Questo devono capire i ragazzi che come lui sono pronti ad imbarcarsi».