«Non mi fa paura più niente, Francesco. Perché io so cosa voleva dire girare con il santino di Che Guevara in tasca nell’Argentina degli anni ’70, so cosa si rischiava».
Una frase buttata lì e venuta fuori da quello che era un mostro sacro della pallacanestro, portato un po’ per caso a Varese da quella volpe di Mario Ghiacci, nella mia primissima intervista scritta per il settimanale “Luce” (un’altra delle grandi testate che a Varese mancano come l’aria).
Una frase che in un attimo mi fece comprendere la grandezza di quell’uomo, di quell’allenatore, di Ruben Magnano. Per noi fino a qualche giorno prima Ruben Magnano era solamente il coach della nazionale che ci aveva battuto nella finale olimpica di Atene. Da quel giorno, per Varese, diventò tanto altro. Diventò l’uomo che riportò la Pallacanestro Varese al centro del mondo restituendole l’importanza che meritava e che aveva perduto da tempo. Diventò la speranza di poter vedere qualcosa di bello, di poter vivere emozioni nuove e di poterle raccontare.
Diventò, per me che scrivevo di basket seguendo la squadra anche in ogni trasferta, una persona con cui chiacchierare di tutto – di basket, di donne, di politica, di storia – fino a tarda notte, sui divani sdruciti della hall di qualche hotel in giro per l’Italia. Ma non diventò mai un amico, perché c’erano dei ruoli da rispettare: lui coach, io giornalista che doveva mantenere la libertà di poterlo attaccare e criticare anche ferocemente se fosse stato il caso. E Magnano ha sempre avuto l’intelligenza per comprendere e accettare questa regola non scritta.
Le critiche da parte nostra arrivarono, soprattutto nella sua ultima stagione. Qualcuno allora pensò (e magari lo pensa ancora) che fummo noi della Provincia a farlo andare via da Varese: no, suvvia, eravamo sì importanti ma non così tanto… La realtà dei fatti dice che Magnano si era giocato (per colpe sue, ma non solo) gli uomini più importanti dello spogliatoio e che l’accordo con Mrsic era fatto da mesi: noi della Provincia l’avevamo capito prima degli altri, tutto qui. Non ci rimangiamo nulla di quello che scrivemmo all’epoca, nemmeno le critiche più pesanti: perché quando le abbiamo scritte ci credevamo, perché per noi il giornale era un campo di battaglia quotidiano e, soprattutto, perché poi noi eravamo ogni giorno al palazzetto a metterci la faccia e a discutere con Ruben confrontandoci e litigando con il rispetto di chi amava il proprio lavoro e la Pallacanestro Varese.
Perché ci sono tanti modi per raccontare di basket su un giornale, e ognuno è libero di scegliere quello che vuole: c’è chi sceglie di vivere ogni articolo come se fosse l’ultimo provando e regalando emozioni dalla prima all’ultima riga, e chi preferisce limitarsi a scrivere le cronache delle partite. Chi ci conosce, sa bene da che parte stavamo noi.
Ciao Ruben, buon riposo: litigare con te, è stata una delle cose più belle che il basket mi abbia fatto vivere.