Attorno a lui abbiamo respirato il profumo del calcio vero, quello dove bastano un campo, una maglia, una squadra-un pubblico-una società-una sola cosa, e non tre entità distinte, per sentirsi una famiglia.
Quello dove puoi ancora scambiare quattro chiacchiere con un giocatore e nessuno ti controlla o ti limita dal suo scranno dirigenziale perché quelle parole fanno solo il bene del giocatore, della squadra e del pubblico che così si sentono, appunto, una cosa sola. E puoi perfino riportarle sul giornale!
Quello dove resti in confidenza con le persone anche quando non giocano più nella tua squadra.
Quello dove scegli gli uomini per quello che hanno dentro e li difendi anche nelle difficoltà, anche quando non giocano, anche quando sarebbe magari facile sacrificarli sull'altare della concorrenza o dei risultati negativi.
Quello dove arrivi al campo e ti senti a casa perfino quando c'è bisogno di confrontarsi perché sai che una stretta di mano è una stretta di mano e sai anche che tutti, ma proprio tutti, sono disposti a buttarsi nel fuoco per un compagno, per un dirigente, per un accompagnatore, per un tifoso e addirittura per un giornalista.
Quello dove il nome di una società non è racchiuso nel nome o nel numero di un giocatore sulla maglia o di un dirigente ma in tutti quelli che sono venuti prima e che verranno dopo di lui perché ciò che fai è anche un onore e non solo un dovere.
Quello di chi inizia la preparazione estiva venti giorni prima del ritiro per conto suo, si alza alle 6 del mattino per andare a trovare i clienti della ditta di vernici di famiglia a Isorella nel Bresciano prima di farsi 180 chilometri, dopo un panino in autogrill, per allenarsi a Varese come se fosse la cosa più bella del mondo («La strada non mi pesa perché so che poi indosserò la maglia biancorossa. Giocare al Franco Ossola è la mia serie A») e poi tornare a casa, ma non il venerdì sera dove si resta a dormire dai compagni (ai tempi da Marrazzo).
Quello di chi sa che la gente lo apprezza perché è una brava persona («I giocatori vanno e vengono ma resta il ricordo dell'uomo») anche se a noi e a tutti è sempre parso anche un bravissimo giocatore, soprattutto quando toccava il pallone e gonfiava la rete su punizione.
Quello di chi sa che sono, appunto, le brave persone e ciò che hanno dentro, a tutti i livelli di una società, a fare la differenza: «Prima che giocatori siamo uomini e lo spogliatoio si è unito in modo incredibile. Merito dello staff tecnico che ci ha reso una cosa unica. In un ambiente così sei obbligato a fare andare bene le cose. Il primo giorno di allenamenti ho incontrato Gheller, che ha alle spalle più di cinquecento partite da professionista, insieme a Luoni e Gazo, anche loro reduci da tante stagioni di livello: mi hanno fatto sentire alla loro altezza, anche se io sono sempre stato nei dilettanti. Il calcio insegna che non sono i più forti a vincere ma le squadre in cui non ci sono né creste né galletti. Al Varese siamo tutti uguali e il nostro segreto è l’unità d’intenti che ci fa dare il 150 per cento anche per i compagni».
Quello di chi sa quando e come andarsene.
Quello di un piccolo grande calciatore come Daniele Capelloni che, pur in poco tempo, ha lasciato una segno indelebile non solo ora che a 36 anni ha deciso di appendere le scarpette al chiodo.
È stato un onore averti conosciuto e averti visto giocare nel Varese, Cape.
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Le parole con cui Daniele Capelloni ha detto addio al calcio giocato
Con oggi si chiude un capitolo del libro della mia vita, iniziato sicuramente appena nato.
Oggi mi sono passati negli occhi 36 anni di calcio giocato, rivivendo tutto dai primi calci qua sul campo di Isorella, fino alla conclusione di oggi, chiudendo il famoso cerchio.
Grazie papà, grazie mamma per tutti i sacrifici e km che avete fatto per me, perché adesso da genitore capisco cosa vuol dire.
Grazie Enrico e Mirella (fratello e sorella calciatori di Daniele, ndr), abbiamo vissuto il calcio come un qualcosa di viscerale. Andate avanti e continuate a divertivi.
Grazie Sara, hai accettato e condiviso nel nostro percorso questa mia passione.
Grazie a tutti i miei compagni, allenatori, direttori e presidenti di tutte queste squadre in cui ho giocato. Ognuno di voi mi ha insegnato e lasciato qualcosa, che sarà il mio bagaglio per il futuro e custoditi nei miei ricordi.
Ora è il tempo della mia famiglia, della nostra Andrea e del piccolo Ale, poi chissà.
Ora un grazie lo voglio fare a te, pallone, sarai parte di me per sempre.
Daniele Capelloni














