Non solo corsa, ritmi forsennati mai visti sui nostri schermi e assenza di riferimenti per gli avversari: la Varese di Matt Brase è diversa anche nel metodo di gestione che lo stesso allenatore adotta durante le partite.
Un esempio lampante sono i timeout: non tanto la loro conduzione - nella quale peraltro si notano elementi non sempre consoni alle abitudini di tanti coach europei, come per esempio il conciliabolo tra il capo e gli assistenti prima dell’approccio ai giocatori - quanto nella frequenza con cui vengono chiamati.
L’argomento ha attraversato le discussioni di appassionati e addetti ai lavori in questo inizio di stagione: l’ex assistant coach di Mike D’Antoni ne chiama davvero così pochi? Siamo andati a controllare: Brase, nelle cinque partite finora disputate, ha richiesto quindici sospensioni sulle 26 disponibili da regolamento (cinque per ogni gara, una in più per ogni supplementare: nel caso di Varese quello giocato contro Trento).
Fa una media di 3 timeout a partita. Il dato acquista valore se confrontato rispetto a quanto accade sulle panchine delle altre quindici squadre di Serie A, cosa che VareseNoi ha fatto nella grafica qui sotto e nell'immagine di copertina (ingrandibile):
Il coach più “controllore” è Alberto Rossi, di Scafati: 24 timeout chiamati su 26 a lui disponibili, seguito da coach Maurizio Buscaglia (Napoli) con 22/27 e da coach Jasmin Repesa (Pesaro) con 21/26. Meno sospensioni di Brase sono state chiamate da coach Marco Ramondino (Tortona), solo 9 su 25, da coach Marco Legovich (Trieste), 12/26, da Sergio Scariolo (Virtus Bologna), 12/25, e da Ettore Messina (Milano), 14/25.
La statistica va, però, a nostro giudizio “corretta” con alcuni fattori riguardanti l’andamento delle partite. Chi ha fermato i match con ancora minor frequenza, ne ha certamente vissuti di meno combattuti rispetto all’allenatore americano e alla sua Varese: Tortona ha uno “score” di 5-0 e +62 di differenza canestri, la Virtus idem (5-0 e +73), Milano a ruota (4-1 e +27); lo stesso discorso vale, anche se all’opposto, per la povera Trieste, 1 sola vittoria e 4 sconfitte caratterizzate da passivi pesanti e risultati già decisi alla fine dei primi venti minuti o al massimo nel terzo quarto.
La Openjobmetis, invece, sia nelle vittorie che nelle sconfitte, si è giocata le sue contese fino agli ultimi minuti, se non secondi, e la differenza canestri di +6 è lì a dimostrarlo.
Insomma, la teoria pare provata: coach Brase lascia correre. «Per me meglio così - ha detto Giovanni De Nicolao l’altra sera nel corso della quarta puntata de l’Ultima Contesa (leggi qui) - Il coach è molto aperto a parlare con noi: spesso durante la partita parliamo di che schema chiamare o di che difesa fare. Ma ha fiducia in noi, ce la trasmette e noi ci sentiamo più importanti e responsabilizzati. Forse in alcune occasioni avrebbe potuto chiamare qualche timeout in più (viene in mente il match contro Brescia, durante il parziale decisivo dei padroni di casa ndr), è vero, ma lo è altrettanto che se fermi troppo spesso il gioco, poi perdi il ritmo».
Questione di fiducia e questione di “scuola tecnica”. Non si può non considerare la formazione 100% USA del nuovo allenatore biancorosso, tra l’altro nipote della leggenda della panchina Lute Olson. Capire dove la squadra possa arriva con le proprie gambe è una filosofia consolidata oltre oceano: gli esempi di Steve Kerr e ancora prima di Phil Jackson sono solo alcuni di quelli possibili in un sistema che dà meno importanza a certi input e al ruolo dell’allenatore come gestore dell’andamento delle gare, con i timeout visti più come opportunità che si presenta in taluni frangenti che non come “lezioni” da impartire quasi obbligatoriamente.