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Storie | 14 luglio 2022, 17:08

IL RICORDO - Addio caro Dottore: l’infanzia è stata la tua casa di via Monviso, la maturità le tue “Notarelle”

Lo studio professionale così particolare in una delle vie più belle di Varese, il sorriso gentile di sua moglie, i cani festanti sempre pronti ad accoglierti e quella stanza in cui ti guardava in fondo agli occhi: memorie di un ex bambino-paziente che più tardi avrebbe scoperto anche l’Emilio Corbetta uomo, attraverso i suoi scritti. Ricchi di amore verso Varese e di condanna della gratuità del male

IL RICORDO - Addio caro Dottore: l’infanzia è stata la tua casa di via Monviso, la maturità le tue “Notarelle”

«Domani andiamo dal dottor Corbetta». Rigorosamente una volta all’anno, in uno qualunque degli infiniti pomeriggi dell’infanzia (perché adesso, invece, corrono così veloci?) sapevi che mamma avrebbe pronunciato questa frase. 

Il controllo degli occhi nella mia famiglia non si faceva “dall’oculista”, ma dal “dottor Corbetta”, in una di quelle simil metonimie che popolano tipicamente i primi anni della vita, fatti di personaggi ricorrenti, ognuno pronto a entrare prima o poi in scena senza che tu ti faccia - in effetti - troppe domande.

“Andare dal dottor Corbetta”, però, era diverso che recarsi dagli altri dottori. Meno noioso, meno spaventoso, soprattutto. Non riceveva infatti in un freddo e anonimo studio del centro città: ti accoglieva al piano terra della sua casa. E già questo provocava in me una strana curiosità, fatta di particolari vivi ancora oggi. 

Via Monviso, ovvero quella Casbeno che a poco a poco si confonde con il centro, è una delle più eleganti vie di Varese. A destra e a manca sono giardini dai grandi alberi, ombreggianti sulla stessa strada, nastro di asfalto che in autunno si presta anche ad accoglierne aghi e foglie, trasformando i marciapiedi in un tappeto. E poi ville da sbirciare attraverso le grate verticali di un cancello, alcune dal vago sapore Liberty: era al campanello di una di queste che ti toccava suonare.

I primi passi nel mondo del dottor Corbetta li compivi in un giardino scuro, dall’aspetto un po’ retrò, ordinato senza essere maniacale, puntando con lo sguardo quella strana torretta sul lato sinistro dell’abitazione. I secondi, consumati i pochi gradini prima della porta, spesso in compagnia di due o persino tre bastardini intenti a farti festa (anche qui: quando mai da un medico?), portavano dritti al sorriso gentile di sua moglie, lunghi capelli che la memoria ha sempre colorato di bianco e una cortesia velata di dolcezza lieve nell’introdurti allo studio.

Sempre piena era la sala d’attesa: dal dottor Corbetta ci passavi mezzi pomeriggi, i pazienti non mancavano mai. Al tuo turno entravi in una stanza più luminosa e viva, la sua, dentro la quale ogni sguardo aveva un bersaglio potenzialmente attrattivo: gli attestati sulle pareti, la libreria a vetrina, la grande scrivania, la tabella con le lettere in grandezza progressiva (un giorno, durante la pre-adolescenza, risoluto a evitare la corvée degli occhiali, avrei tentato di barare, ma alla seconda P scambiata per una D il mio piano fallì miseramente…) e quei macchinari semoventi con i quali ti avrebbe guardato dentro alle pupille.

E poi lui, certo. Il viso tondo, i baffi ben curati, il fare e il dire calmi e rassicuranti, la battuta che faceva talvolta capolino, l’assenza pressoché totale di fretta o, peggio, di nervosismo. Neanche volendo ti avrebbe incusso timore: aveva il phisique du role dell’esperienza, nelle cui mani volentieri ti mettevi. Sull’enciclopedia, vicino alla voce “medico”, io ci avrei visto bene la sua foto. 

È, tuttavia, ciò che ho raccontato fino a ora, solo l’immagine trasposta di un bambino, poi ragazzino... Sono fotogrammi sovrapposti l'un l'altro fino a quando - i casi della vita - la sua strada di medico e la mia di paziente si sono separate, “così, senza far niente” come del resto si erano incontrate. Io, il dottor Emilio Corbetta, in realtà non lo conoscevo. E mai avrei pensato di poterlo fare.

L’esistenza, a un certo punto, ha però deciso diversamente. Lo rincontrai tre anni fa, a una cena di Radio Missione Francescana. E lo riconobbi subito, mentre lui stentò e non gliene feci una colpa: i pazienti cambiano, i bravi dottori rimangono identici, almeno nella mente e nel cuore di chi hanno curato. Era per me, quella sera, l’entrata nel mondo di RMFonline, la “rivista” dei grandi pensatori varesini: tra i suoi byte ci avrei ritrovato il mio dottore. E le sue “Notarelle”.

Per un anno, ogni settimana, ho avuto l’onore (non l’onere) di “passarle” (gergo giornalistico), prima di consegnarle titolate al direttore Max Lodi. La conoscenza professionale è quindi diventata umana, intima, perché non c’è modo più profondo di identificare un’anima che dalle righe che essa fa sgorgare libera su un foglio.

Attraverso le “Notarelle” ho scoperto l’Emilio Corbetta innamorato della sua Varese, che per anni ha servito come consigliere comunale. Ho appreso i ricordi della sua carriera, i racconti della sua famiglia, l’amore verso sua nipote, la gratitudine verso gli amici, le riflessioni sul mondo che cambiava intorno a lui, lui che lo guardava con occhi sempre vispi e curiosi, quasi come se - dopo aver passato un’esistenza intera a curare gli occhi degli altri - avesse imparato il segreto per tenere vivi i suoi.

Di quegli scritti settimanali c’è soprattutto una parte che mi resterà dentro, la più recente: il feroce giudizio sulla guerra in Ucraina e altre simili. Una ferma condanna nei confronti di distruzioni, dolore e morte che solo un uomo pienamente consapevole di attraversare il crepuscolo della propria vita può convintamente provare. Perché chi non ha più tempo, sa come nessuno che il tempo non va sprecato nel male.

Fabio Gandini

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