Fine anni ’50, il gioco preferito dai bambini del paesino di Crespina, sulle colline pisane, è un pallone da calciare ovunque. Partite interminabili sul prato del campo sportivo comunale che continuavano sulla strada verso casa con l’immancabile “terzo tempo” sulla piazzetta della chiesa. Per i giovani di allora il 1968 è molto altro e carico di speranze. Per il quattordicenne Massimo Arrighi è l’anno del suo primo cartellino da calciatore con la Stella Azzurra di Pisa e l’inizio di un sogno destinato ad avverarsi. Un anno gli basta per far parlare di sé, in provincia e non solo.
«In Toscana girava un personaggio piuttosto noto, il signor Nicolini, bravo a scovare talenti per proporli a società di categoria superiore – ricorda Arrighi –. Fu lui a portarmi con altri due ragazzi a Varese dove in una giornata di pioggia giocammo "il provino" su un campo impossibile, con un solo presente a bordo campo: Pietro Maroso. Mi scelsero e mi sistemarono al Collegio De Filippi dove legai da subito con gli altri ragazzi del settore giovanile, con quelli della Pallacanestro Ignis e l’anno successivo anche con i ragazzi del Milan».
Varese e De Filippi diventano casa tua per la trafila nel settore giovanile biancorosso.
Beh si, ho cominciato negli Allievi con mister Balestra e poi in Primavera con mister Dazzi. In quegli anni il Varese aveva anche una sorta di squadra satellite in serie D, omonima della squadra di basket, l’Ignis, dove si forgiavano i giovani per l’eventuale salto in prima squadra. L’anno dopo mi mandarono in prestito al Seregno, in Serie C. Avevo gli esami di maturità e quindi mantenni la mia camera al De Filippi facendo avanti e indietro con una 500 compratami dal nonno. In inverno tornai temporaneamente al Varese per la prima volta nella sua storia al Torneo di Viareggio. Nuova esperienza, nuovo allenatore: mister Bolli. Fu il prologo al mio rientro alla base, in serie A, mister Maroso, direttore sportivo Riccardo Sogliano.
Poi cosa successe? Il casino organizzato di Fascetti era dietro l'angolo...
Retrocediamo in B e il secondo anno sfioriamo il ritorno in A. Poi ancora in prestito, sempre in serie B, a Catanzaro. Con gente come Petrini, Palanca, Luigi Maldera e un certo Claudio Ranieri centrammo la promozione in Serie A e il Varese decise di riportarmi a casa. Ritrovai una società diversa da quella che avevo lasciato pochi mesi prima. Presidente era l’ex campione della Pallacanestro Ignis, Ivan Bisson. In panchina sedeva Rumignani ma a matematica retrocessione in serie C venne esonerato promuovendo in prima squadra dalla Primavera un certo Eugenio Fascetti. Dopo qualche settimana di incertezza la società trovò un suo assetto con l’arrivo di Colantuoni alla presidenza e la conferma di Fascetti. Disputammo un gran campionato, tornando in B, giocando un calcio mai visto in quelle categorie. Idem l’anno dopo nella categoria superiore, con Beppe Marotta in versione apprendista dirigente. Poi il ritorno in Toscana, all’Arezzo e infine a Novara, per chiudere la carriera.
Di quel Varese si ricordano in tanti con un termine andato via via svalutandosi: scuola di vita.
Per me il calcio è la vita, dove ho unito passione e lavoro. Varese mi sembrò da subito una città a misura d’uomo, dove un giovane, calcisticamente parlando poteva crescere nell’ambiente ideale. Il salto in prima squadra veniva deciso e supportato a prescindere dall’immediato rendimento. In gergo si dice “venivi aspettato”, sia dalla società che dalla piazza. La società puntava alla valorizzazione dei giovani, alternando campionati di serie A e B.
Visto con gli occhi di oggi, com'era quel Varese?
Posso dire che la struttura societaria era all’avanguardia. Noi ragazzi eravamo sottoposti ad un percorso che prima di arrivare al campo passava dall’educazione e dallo studio. Il Collegio De Filippi era un punto cardine di ciò. Chi arrivava da fuori era seguito sia dagli addetti del collegio sia dai dirigenti della Società. Ricordo bene i nomi degli accompagnatori delle varie categorie che salivano a turno al De Filippi per controllare noi ma anche gli allenatori: Zamboni, Furega, Grotto, Tettamanzi, Besani, Tallone, Marcosano. Sul campo trovavi ottime persone e autentici maestri. Chi possedeva maggior talento non aveva ostacoli per allenarsi o giocare tra i più grandi. Inoltre, in quegli anni al mercoledì si giocava il campionato De Martino, ulteriore possibilità per le società di schierare una squadra composta da giocatori della Primavera e della Prima. Il nostro allenatore era Barluzzi.
Compagni a cui sei rimasto legato e senti tuttora?
Parecchi. Con l’avvento dei social si riesce con facilità a non perdersi di vista. A Varese sono rimasti alcuni miei compagni di avventura dal settore giovanile arrivati con me in prima squadra, su tutti Ernestino Ramella e Vito De Lorentis.
Pensando al tuo percorso da giocatore e a quello da allenatore: oggi pochi talenti o pochi maestri?
Nel corso degli anni abbiamo subito la scomparsa del gioco di strada, dove l’apprendimento si verificava in maniera libera e spontanea. Sono nate le scuole calcio ma non siamo stati capaci di riproporre quei principi elementari quanto estremamente efficaci. I talenti non mancano, i maestri devono riconvertirsi e capire come poter incidere sulla crescita dei giovani. Il maestro di calcio attuale è un facilitatore di apprendimento attraverso le strutture di allenamento da lui create per il "gioco" perché è attraverso il gioco che il giovane calciatore scopre e apprende il senso di ciò che deve fare, nelle diverse situazioni che gli si presentano, con l’errore parte integrante dell’apprendimento.
Cosa significa per te allenare in una società come l'Empoli?
Qui posso mettere in pratica almeno qualcosa di ciò di cui si riempiono la bocca gran parte dei dirigenti del calcio italiano: i giovani sono importanti, dobbiamo investire nel settore giovanile, prima del risultato conta formare i giocatori, dobbiamo sviluppare il talento, ecc, ecc.. La politica, la globalizzazione, l’apertura delle frontiere, procuratori, diritti televisivi e sponsor hanno innescato qualcosa di diverso da un tempo, quando erano molte le società che valorizzavano il settore giovanile. Adesso si guarda ad un mercato più ampio in cerca di giovani già pronti. Io sono orgoglioso di far parte di una società come l’Empoli che, come il Varese di allora, vuole e riesce a formare e a valorizzare i giovani partendo dalla base. Il risultato va considerato una parte importante e integrante del percorso ma più importante è la loro crescita. Il concetto di vittoria va inteso come esperienza e strumento di miglioramento non certo un fine da ottenere in contrapposizione o comunque con sacrificio dell’azione formativa e didattica. In ottica educativa è di grande rilievo dare sempre il massimo di sé per vincere coltivando l’ambizione di voler primeggiare nel rispetto della lealtà, indipendentemente da quante volte e in quali occasioni ci si riesce.
Nell’Empoli di oggi oltre a te nel settore giovanile c’è un pezzo di Varese che sta guidando i grandi al ritorno in serie A (scongiuri automatici). Com’è il rapporto tra prima squadra e settore giovanile?
Ti racconto una giornata a Monteboro, il nostro centro sportivo. Venerdì, ore 13, allenamento di rifinitura della Primavera. La prima squadra gioca la sera stessa e dopo il pranzo mister Dionisi e alcuni collaboratori dal balcone del ristorante seguono l’allenamento insieme a qualche giocatore. Nel frattempo, arrivano anche alcuni ragazzi del convitto che dopo scuola e pranzo si accomodano in tribuna, in attesa del proprio allenamento, a vedere quello dei più grandi. Questo è l’Empoli. Non ci sono distanze tra prima squadra e settore giovanile. Settimanalmente diversi ragazzi salgono nella fascia superiore, compresi i Primavera con la prima squadra. Con presidente e mister della prima spesso presenti alle nostre partite.
Massimo Arrighi: Empoli è per sempre?
Qui ho trovato quello che ho sempre desiderato nel calcio giovanile: avere la felicità di vedere ragazzi cresciuti all’interno del nostro settore diventare calciatori professionisti, l’orgoglio di vedere realizzato e valorizzato il lavoro svolto da tutto il nostro gruppo di lavoro. Ho scoperto con il tempo che questa mia vocazione è la conseguenza della bellissima esperienza vissuta da giovane al Varese Calcio, dove persone e ambiente hanno influenzato enormemente questa mia scelta di vita. Non immagino dove potrei star meglio. Anche se a prescindere da ciò che si desidera a volte chi decide è il destino.