Papà Angelo, che aveva preso in gestione l’edicola all’angolo e lo aveva portato a “scoprire” quelle due vetrine rimaste improvvisamente vuote (l’inizio di tutto, insomma…), lo avrebbe voluto chiamare “Bar Sport”, come si usava all’epoca per quei luoghi eletti ad accompagnare il caffè o l’aperitivo alle infinite chiacchiere calcistiche.
«Io invece volevo qualcosa di diverso, un nome corto, che rimanesse in testa. Avevo impresso quello di un negozio di abbigliamento in cui avevo lavorato, il Clan, in centro a Varese, E mi piaceva l’idea del “club”…».
Era il 1991: uno più uno, “Club 1991”.
Un po’ Bar Sport, e Angelo da lassù sarà contento, perché «il lunedì di discussioni tra tifosi ce ne sono sempre tante, e una volta si parlava anche del Varese, quando “esisteva”, quando non era completamente sradicato dalla città…», ma soprattutto un punto di riferimento da 34 anni per una delle piazze più frequentate della città.
Perché per capire il “Club 91” e il suo alter ego Enzo Agugliaro, bisogna scrivere di luoghi e di persone, non di sport. Bisogna scrivere di una Casbeno che in piazza Libertà brulica di vita, di passaggi, di abitudini, di servizi… E quindi anche di studenti che passando fuori dalla vetrina gli fanno un sorriso complice, di pensionati del quartiere che se lo trovano chiuso “guai”, di poliziotti e funzionari che mai rinuncerebbero al loro caffè, di prefetti, di questori e di presidenti della Provincia che hanno dato a Enzo la loro confidenza e la loro stima, ricevendo in cambio gentilezza e accoglienza.
Il mondo corre e correva a destra e a manca, Enzo è rimasto sempre lì, in mezzo.
«Nel 1991 Casbeno e la piazza erano bellissime - racconta stimolato sui ricordi - Avevamo tutto: c’era il barbiere Peppino, la parrucchiera, la signora che serviva tè e pasticcini, la classica drogheria di una volta del Lozza, Franzetti con la sua tabaccheria che era già una “colonna”, la farmacia, l’ottico, la pizzeria la Conchiglia che prima era il circolo di Casbeno… Poi sarebbero arrivate la banca e la panetteria… Era un quartiere molto identitario».
«Ogni giornata - continua Enzo ai comandi del suo personale macchina del tempo - era scandita dalle persone. Alle 7 arrivavano gli studenti, le ragazzine a ripassare la lezione o l’agente di polizia prima di prendere servizio. Poi, via via, tutti gli altri. Questo bar ha un’anima, fatta dai clienti, dagli habitué e da tutti coloro che ci hanno lavorato dentro».
Guardi fuori, non dentro - dove il tempo si è fermato a un’eleganza anni ’90 che ha ancora la sua piena cittadinanza - e non ti raccapezzi più: i negozi, una volta coordinate precise, oggi ruotano vorticosamente e non servono più a identificare un luogo, portandoti fuori strada. E poi non sembra esserci alcun criterio, né misura: proprio di fianco al Club 91, letteralmente contiguo, sta per aprire un nuovo, grande bar tavola calda. Pare incredibile, ma non esiste legge che tuteli tali “schiaffi” alla concorrenza… e Agugliaro non sa se essere più arrabbiato o incredulo: «Ho il quartiere dalla mia, nessuno può credere che stia succedendo una cosa del genere. Ho fatto notare la questione anche al prefetto Pasquariello e al presidente Magrini, ora manderemo - noi esercenti della piazza e dei dintorni - una lettera al Comune… Vediamo se si può fare qualcosa».
Meglio allora chiudere di nuovo gli occhi, almeno per un attimo, e pensare alla strada percorsa. Tanta. «Io ci ho messo il contatto con le persone, lo sforzo nel mantenere sempre lo stesso tipo di accoglienza, anche davanti a una clientela che non è più aperta come una volta. Oggi c’è un po’ meno educazione, più fretta, le persone si isolano con l’auricolare o il telefono in mano e ti fanno segno con la testa. Io invece continuo con “buongiorno, buonasera, prego, mi dica…”. E quando qualcuno mi dice “vengo qui perché ci sei tu”, capisco di essere riuscito a fare la differenza…».
Quando pensa a cosa gli abbiano lasciato alcune persone, la sua scorza - costruita in 34 anni dietro al bancone in cui ha visto di “tutto” - per un attimo si incrina. Si commuove: «Ho servito questori, prefetti, persone di rilievo che quando se ne sono andati per ragioni di servizio mi hanno lasciato bigliettini da visita e numeri personali… Tutta gente che ha frequentato con piacere questo bar e mi ha reso orgoglioso. Ricordo soprattutto il dottor Marcello Cardona e il professor Sante Visco».
Forse è da questo che è nata la forza, fino ad ora mai venuta meno, di andare sempre avanti anche nelle difficoltà, anche dimagrendo per lo stress, anche durante e dopo «il Covid, quando davvero ho avuto paura di chiudere. Tre mesi di lockdown, poi abbiamo riaperto con i bicchierini di plastica e due clienti alla volta… Il bar sembrava morto… Lì ho creduto di non farcela, ma siamo ripartiti, piano piano». O come quando, sembra incredibile a un tiro di schioppo dalla Questura, dei malintenzionati sono entrati a rubare «sfondando il vetro con un bidone, approfittando della cler che non si chiudeva bene. Il giorno dopo mi ritrovai con il “paginone” su Prealpina: “Svaligiato il bar della Questura”… Per il resto, grazie a Dio, in 34 anni è sempre andato tutto liscio. Anche perché, appena c’è qualcuno che dà fastidio, basta che faccio un fischio e dall’altra parte della piazza gli amici poliziotti arrivano».
Domanda tipica di “Varese dalla Vetrina”: “Com’è cambiata Varese? Cosa le manca”? Enzo ci riflette: «Guardate, agli occhi esterni questa città viene considerata bella. Lo sostengono tante persone che vengono qui da fuori. Però siamo diventati una città dormitorio, spenta. Nascono diversi locali nuovi, ma manca la gente che li frequenti».
Enzo, tuttavia, ultimamente è riuscito in una piccola impresa, grazie a un’iniziativa nata quasi per gioco e diventata un appuntamento fisso del giovedì sera. Si tratta di un apericena tra amici, durante il quale viene cucinata ogni volta una specialità diversa: «Siamo tutti bravi ai fornelli e allora improvvisiamo. Una sera abbiamo fatto i paccheri, un’altra il risotto alla cacio e pepe, un’altra ancora la pasta ai carciofi. La cosa bella è che si è sparsa la voce e sono in tanti a venire, soprattutto tra coloro che frequentavano il Corso Matteotti negli anni ’80. Mi piace pensare che siamo riusciti a ricrearne lo spirito».