«Vorrei che alla Solbiatese non si rispondesse mai più con un "no" a un ragazzino che sogna di giocare a calcio. Questo non vuol dire non fare qualità, però tutti coloro che vogliono giocare dovranno poterlo fare, trovare il loro spazio, sentirsi parte di una famiglia comune. Tutti i bambini che si affacciano al Chinetti e a questo club devono sentirsi dire che le porte qui sono aperte».
«Il mio calcio è racchiuso in quelle 300 persone arrivate a Firenze per sostenerci in finale e che si sono sentite legate ancora di più a noi nella sconfitta. In questa "presenza" e in questa vicinanza c'è la crescita di quel senso d'appartenenza che è l'obiettivo finale per cui ho preso il club nerazzurro. Mi sento in debito con tutti loro».
Ancora una volta Claudio Milanese lascia il segno, apre una nuova via - o allarga quella già esistente - chiamata socialità e appartenenza, quella che oltre a un progetto e alla stabilità permette di ottenere risultati per farli durare («Magari puoi anche vincere, ma senza un progetto e un'identificazione popolare la vittoria dura lo spazio di un attimo, una stagione o due, e poi non resta nulla» dice ancora Milanese). E così, mentre la Solbiatese prosegue nel solco della continuità iniziata molti anni fa e della bandiera, con un'impostazione di squadra "riveriana" che vede al centro Scapinello (il neo tecnico Tricarico lo ha già allenato e sa come si fargli ruotare attorno tutto il resto), il patron nerazzurro guarda a ciò che è stato fatto e a ciò che sarà.
Claudio Milanese, cosa resta a freddo della serie D persa nella finale di Coppa Italia a Firenze?
La delusione è stata cocente, ma anche quest'emozione è il bello del calcio che poi lascia spazio ad analisi più serene. Credo che tutto sommato la finale sia stata l'epilogo anche giusto di un anno in cui un po' di errori li abbiamo fatti e un po' di situazioni non sono andate nel verso giusto. Siamo partiti con una rosa finalizzata a un progetto tattico e a una guida tecnica, quella di Domenicali, che prevedeva di giocare in un certo modo: purtroppo si è interrotto un certo feeling tra l'allenatore e i giocatori e ho preso atto di dover effettuare un cambiamento che per me è stato molto doloroso perché Domenicali è un allenatore molto preparato e seguiva un progetto chiaro. Ognuno ci ha messo del suo, ma le cose nel calcio come nella vita vanno anche così... Ci siamo così ritrovati davanti a un nuovo sistema e a giocatori costruiti per fare un'altra cosa, anche se la bontà della rosa e l'applicazione ci hanno comunque permesso di compiere un buon cammino.
Questo è stato il primo "inciampo". E il secondo qual è?
Siamo stati penalizzati dagli infortuni: abbiamo perso giocatori importanti anche per lungo tempo e, in più, non abbiamo avuto troppa esperienza, e mi ci metto anche io, nella gestione delle due competizioni. Forse abbiamo fatto un turnover un po' limitato, forse ci siamo accorti un po' tardi che dovevamo gestire in un certo modo le cose... e così ci siamo trovati all'appuntamento della finale con la squadra che aveva fatto quasi 50 partite ufficiali e che si è trovata in difficoltà non tanto fisicamente ma dal punto di vista mentale e tattico, in una situazione di maggior debolezza rispetto a quelli che sono i nostri valori assoluti. Poi la finale è come il lancio di una moneta, come dice Guardiola: abbiamo avuto l'occasione di pareggiare e se l'avessimo fatto in quel momento, probabilmente l'avremmo vinta perché stavamo meglio del Paternò. È andata così, il progetto va avanti.
Gorrasi ha fatto un passo avanti prendendosi le responsabilità del mancato traguardo e dicendo "io sono a disposizione"...
Una mossa frutto della delusione del momento: Gorrasi era, è e sarà il nostro responsabile tecnico perché questo progetto è partito con lui e deve andare avanti con lui, non ci sono mai stati dubbi in tal senso perché gode della fiducia mia e di tutto l'ambiente.
La cosa migliore della sconfitta?
La voglia di rivalsa e di stringersi ancora di più a questo progetto da parte delle persone che mi stanno vicino più di tutte, da Barban a Pivetta. Il nostro progetto non si è mai fermato e non si ferma a Firenze, anzi cresce proprio da lì.
Il Chinetti è la casa dei suo sogni e di quelli della Solbiatese: perché?
Perché è la bomboniera ideale dove fare calcio in maniera coerente con questi tempi: qui puoi quasi toccare i giocatori, godere davvero della partita anche grazie all'ambiente in cui si gioca, avere alle spalle campi dove giocano i bimbi e i ragazzi. Al Chinetti costruiamo qualcosa che resta, un'ambizione visibile e duratura che non s'infrange per un risultato negativo. L'accordo con il Milan ci consentirà di avere il campo centrale di 2.000 posti a sedere con seggiolini, manto erboso nuovo, impianto di irrigazione e di illuminazione, prefiltraggio e videosorveglianza già omologato per la serie C. Nel frattempo tenteremo di rivincere il campionato da subito.
Tricarico è il nuovo mister: perché?
Innanzitutto vorrei dire che mister Rota, una persona splendida, ci ha dato una grande mano e per lui la nostra è stata una vetrina importante, essendo un allenatore esordiente. Abbiamo deciso di cambiare scegliendo un profilo di allenatore che ci dia la possibilità di valorizzare di più alcune caratteristiche tecniche di un gruppo al centro del quale c'è Scapinello: Tricarico sa come giocare in una certa maniera attorno al nostro capitano perché ha già dimostrato di farlo in passato.
Torniamo alla finale e a quei 300 giunti da Solbiate a Firenze: non era scontato riaccendere questa passione.
Questa è la "mia" vittoria in Coppa Italia: aver portato tutta questa gente a sostenere la Solbiatese nel modo giusto, ringraziando i ragazzi alla fine e sentendosi partecipi di qualcosa che va oltre il campo, legandoci di più nella sconfitta. In questa presenza c'è la nostra crescita. Si sta creando un senso d'appartenenza che poi è la finalità per cui io sono qui: mi sento in debito con tutte queste persone e voglio far bene per loro.
Il sogno iniziale per cui Claudio Milanese è entrato nella Solbiatese era fare calcio nel modo giusto, per avere un bel luogo dove divertirsi, senza fretta e senza pressioni. Ora qual è?
Per fare calcio con i tempi che corrono bisogna partire dal presupposto che non si può non partire da un concetto di socialità, quindi l'obiettivo non può essere solo il risultato. Bisogna costruire qualcosa che crei senso d'appartenenza nelle persone e che le gratifichi con il gioco, le faccia stare bene allo stadio, dove arrivare per un appuntamento di cui non potere fare a meno per tutto ciò che porta con sé. C'è la partita, ma dietro deve esserci anche tutto il resto.
Il Chinetti per lei cosa dev'essere?
La casa dove ci sia la possibilità di giocare a calcio per tutti i bambini e i ragazzini che vogliono farlo. Quindi, campi adeguati e ambiente con i valori positivi dove crescere.
Quindi, settore giovanile (è tornata a casa Dallo, arriverà anche Verdelli). Lei chiede qualcosa di diverso o di più: cosa?
Abbiamo ottenuto grandi risultati grazie a chi ha condotto il settore giovanile, però ora vorrei una cosa un po' diversa in cui non ci sia più una selezione esagerata finalizzata solo alla qualità, che pur non va dimenticata. Vorrei che alla Solbiatese non si rispondesse mai più con un "no" a un ragazzino che sogna di giocare a calcio: qui tutti dovranno poter giocare, trovare il loro spazio e la loro squadra, sentirsi parte di una famiglia comune senza sentirsi dire "tu no", "tu via" o "tu non giochi". Vogliamo aumentare il numero di iscritti non tanto perché abbiamo fatto un investimento importante nelle strutture - comunque sia, dobbiamo metterci qualcosa di tasca nostra - ma per una questione filosofica: tutti i bambini che si affacciano alla Solbiatese devono poterne far parte. Io vorrei più ragazzi possibili e, con loro, più persone e più movimento possibile al Chinetti: insomma, socialità.
Più persone in un posto dove trovare valori positivi.
Da questo punto di vista di strada ne è stata fatta perché tante persone di Solbiate a cui sono grato si stanno avvicinando (vorrei citare, tra gli altri, Angelo Rosio e Ambrogio Mazzetti) ed è per questo che poi va a finire di trovarsi a Firenze 300 persone o 1.000 al Chinetti che vengono a tifare la loro squadra su un paese di 4.200 abitanti.
Sogliano ha salvato miracolosamente il Verona per due anni in A dimostrando che alcuni valori contano ancora, al di là dei budget: il gruppo, il fiuto, la fame, l'umiltà...
Premesso che sono stato presidente di Sean quando ha esordito al Varese e quindi gli sono affezionato in maniera particolare, a prescindere dall'affetto è un professionista del calcio che porta avanti questi valori. Ha capito da sempre che non vincono gli allenatori, i giocatori o i presidenti ma "le squadre" e lui è bravo a costruire un gruppo che ha lo stesso intento. Per me non è affatto una sorpresa che si sia salvato in situazioni difficili per due anni di fila: sappiamo chi è Sean e credo che Varese abbia perso molto quando lui ha scelto altri lidi.
Guardiamo allo sport in provincia: calcio, ma non solo.
Nel calcio c'è frammentazione con tante società? È vero, ma intanto ci sono... Unendo magari le forze si potrebbe pensare di avere qualche vetrina migliore. Ma è un po' presto, anche perché il Varese esiste ancora e potrebbe, anzi dovrebbe essere la squadra di riferimento: non ci sta riuscendo ma stanno lavorando per farlo. Per il resto ci sono realtà dinamiche e interessanti: a parte la Solbiatese, che ritengo una risposta territoriale in crescita per la stessa Varese, c'è la Varesina, ci sono altre società che fanno bene. Il basket mantiene in serie A la tradizione più consolidata e conosciuta della provincia. L'hockey? Sono molto felice di quello che sta realizzando perché è una bellissima realtà che unisce le persone.