Nella puntata di ieri sera di Stadio Aperto in un minuto e trentotto secondi il Confa ha scolpito nella pietra il “peccato originale” del (Città di) Varese - “città di” tra parentesi, perché vorrei chiamarlo solo Varese, ma non ci sono mai riuscito fino in fondo. E proprio per i seguenti motivi.
Parole chiarissime, fatte di passione e orgoglio per quei nostri colori che racconta da 30 anni e ama da 50. Parole che sposa chi scrive e (scommessa?) diversi, se non tanti, altri cuori biancorossi. Queste: «Il distacco tra la città e la società ha fatto la differenza nel far sì che i giocatori possano (e abbiano potuto) vivere la città. Andare a vedere una partita dell'hockey, che non è andare a fare passerella, ma è andare in mezzo a 1.100 persone a vivere la città, a respirare passione. È unire la squadra. È fare gruppo. Dalla società non è mai stato fatto gruppo tra questi giocatori e la città e la tifoseria, tranne in rari casi all'interno della società (il riferimento è a Stefano Pertile, ndr). Questa è la grave colpa della società: essersi staccata e distaccata dalla città e dall'ambiente di Varese. E i giocatori come fanno a percepire la città e a farsi amare dal pubblico e a farsi sentire partecipi di una storia, che è una storia comune? Sembra che vivano in una bolla, da un anno. Parlano solo con Rosati, con Amirante, Merlin... Ma fateli parlare con la gente, con la città, con i tifosi! Portateli al palazzetto, al palaghiaccio, portateli fuori, portateli una serata con gli ultras. Questo vuol dire fare gruppo! Questa è la più grossa mancanza di questa società: essersi isolata in una torre d'avorio lontana dalla città e, anche, da chi rappresenta l'animus pugnandi della città - come VareseNoi».
Non ce la si aspetta, ma si attende (impazientemente, finalmente) replica.