«Buongiorno, mi fa un caffè per favore?».
Quante volte, ogni giorno, ogni settimana, pronunciamo questa frase, senza fermarci a pensare al viaggio che ogni singolo chicco di caffè ha intrapreso per arrivare, nella forma liquida che noi tanto apprezziamo, nella tazzina che abbiamo tra le mani.
Proprio di questo percorso, e di tante altre curiosità relative al mondo del caffè, oggi parliamo con Talia Miceli, responsabile marketing e comunicazione della Torrefazione Felmoka di Malnate, nonché Presidente dell’Alleanza Internazionale Donne del Caffè.
Per fare un caffè, ci vuole tempo
Un seme. Inizia così la storia del caffè, la cui filiera produttiva «è, forse, una tra le più lunghe, sia come tempistiche sia come chilometri. Il caffè può arrivare da Paesi come il Brasile, l’India, l’Africa, lontani dall’Italia: i chicchi che arrivano nella nostra tazzina hanno percorso davvero un lungo viaggio, caricandosi del significato che viene loro attribuito dalle mani che lo lavorano. È il tempo che viene dedicato alla coltivazione che dà valore. La lavorazione del torrefattore è uno tra gli ultimi passaggi, i chicchi vengono miscelati per creare un gusto unico, tostati e poi riposano per un certo periodo in silos, devono avvenire alcuni processi per far sì che il caffè si “stabilizzi”, prima di essere imbustato e distribuito al consumatore, al barista, ai ristoratori... A volte torna addirittura dall’altra parte del mondo, al punto di partenza».
Un processo che richiede, quindi, tanto tempo: «Da quando il chicco (ovvero il seme della pianta del caffè) viene colto a quando viene consumato può trascorrere anche più di un anno, considerando i tempi di trasporto».
Il consumo di caffè, tra quantità, qualità e abitudini
Se volessimo individuare una stagione in cui il consumo di caffè aumenta, «almeno qui in Lombardia, sarebbe senza dubbio quella invernale, diciamo da ottobre a marzo, parlando sia di ristorazione sia di privati». Oltre alla tendenza comune a bere più bevande calde nei mesi più freddi, infatti, «consideriamo anche il maggiore afflusso di persone dovuto alla riapertura delle scuole. Certo, dal punto di vista dei bar non possiamo fare un ragionamento che dipende dalla stagionalità, negli ultimi due anni sono entrate in gioco altre variabili che hanno modificato incredibilmente le abitudini d’acquisto - dall’altro lato, durante il lockdown, abbiamo ricevuto un notevole numero di ordini tramite il nostro e-commerce».
«In realtà, bisognerebbe parlare di abitudini di consumo in una stagione piuttosto che in un’altra, il prodotto va di conseguenza, non si dovrebbe fare un’analisi quantitativa, ma qualitativa - prosegue Talia - Non si tratta di particolari formule magiche, ma della vita di tutti i giorni. Con lo smart working, la gente consuma più caffè a casa, questo ha portato ad una grave perdita per i bar».
«Il vero problema, poi, è che, per un prodotto come il vino, la gente è più curiosa, vuole conoscere le varie tipologie di uva, la storia che c’è dietro a un bicchiere di vino. Purtroppo, per il caffè non è così, anche se ce ne sono tantissime varietà: qui in Italia c’è poca curiosità. Non è solo una questione di prezzo, anche se nel nostro Paese il caffè al chilo costa troppo poco, quindi c’è qualcosa che non va».
Dalle parole di Talia, quindi, emerge un messaggio forte e ben preciso: bere sì il caffè, ma fare attenzione a una migliore qualità, tanto del prodotto quanto del gesto stesso: «Deve essere un’abitudine legata a un momento particolare della giornata».
Anche la “pausa caffè” che ci allontana dalla scrivania in ufficio, occasione per fare due passi e scambiare due parole con i colleghi, quindi un momento di convivialità, potrebbe essere ripensata, proprio da parte delle aziende, soprattutto nell’ottica dell’attenzione all’ambiente: «Questo non significa eliminare la plastica dei bicchieri, ma rendersi conto di quanto un gesto, ripetuto più volte nell’arco della giornata, possa avere un impatto importante sull’ambiente».
Tra nuove proposte, il ritorno alla tradizione
Tra i prodotti di nuova generazione particolarmente apprezzati che la Torrefazione ha proposto ai suoi clienti «non lanciato da noi in prima linea, ma come brand di mercato, è stato il caffè al ginseng. Entrato a gamba tesa come alternativa al caffè, in quanto contiene meno caffè e ha un gusto più dolce, sta funzionando, cresce sempre di più».
Un dato interessante, invece, riguarda l’aumento di consumo di caffè per la moka. «Questo mi fa sperare in un futuro migliore, mi rende felice, perché parliamo di un prodotto molto legato alla tradizione del caffè e di un gesto che richiede tempo». Preparare la moka, aspettare che l’acqua bollente si unisca alla polvere marrone ed esca quel liquido dal profumo inconfondibile, che al mattino ci dà la giusta energia per affrontare la giornata, che sorseggiamo in compagnia di amici o amiche, condividendo un momento di relax.
«Quando bevi un caffè, devi fermarti, renderti conto di quello che stai facendo e collegarlo a quello che sta accadendo intorno, dedicare quel momento prima di tutto a te stesso. Questo aumento di consumo di caffè per la moka e la riapertura dei bar mi fanno sperare in un ritorno alle buone abitudini e alle buone maniere».
«Migliorare la cultura del caffè per essere più sostenibili»
Parlare di abitudini e di tradizione, infine, non può che portarci a riflettere sul tema della vera e propria cultura del caffè.
«Uno tra gli obiettivi dell’Alleanza delle Donne del Caffè, riconosciuta come IWCA (International Women’s Coffee Alliance) Italia, è portare alla luce tutto quello che il caffè significa: non solo la singola tazzina ma tutta la filiera, per creare cultura attorno al prodotto. È questo il primo elemento su cui intervenire, va bene parlare di empowerment, ma le donne possono rendersi indipendenti solo se riescono a lavorare meglio e lo possono fare solo se il caffè è venduto a un prezzo corretto. In questo modo, il loro lavoro viene riconosciuto e loro possono essere autonome. In quanto Paese consumatore di caffè, siamo tenuti a far capire che questo è un prodotto di valore e intervenire per sviluppare una maggiore consapevolezza significa soprattutto, comprendere dove possiamo essere umanamente più sostenibili».