Armando Picchi è stato una colonna della storia del calcio italiano. Nato a Livorno, inizia a giocare da ragazzo nella squadra del San Frediano, per poi passare al Livorno e alla Spal. Dal 1960 al 1967 è protagonista e insieme ai compagni fa la storia dell'Inter, nell'indimenticabile periodo del presidente Angelo Moratti e del "mago" Helenio Herrera con Italo Allodi.
Dai colori nerazzurri passa al Varese del "cumenda" Giovanni Borghi, giocando 46 partite tra il 67 e il 69. Proprio nei biancorossi inizia la carriera da allenatore, per poi passare al suo amato Livorno e alla Juventus. Purtroppo il destino fu infine crudele con Armando: il 26 maggio del 1971, per un male inguaribile, morì dopo mesi di sofferenza, lasciando due bambini in tenera età, Leo e Gianmarco, e la sua amata moglie Francesca. Nel 1990 gli è stato intitolato lo stadio di Livorno.
Insieme al primogenito Leo, che si occupa di progetti editoriali per l'Inter, e all'amico Paolo Saltini, ricordiamo questo amato campione.
Leo, cosa ci racconta di suo papà?
Essendo mancato quando avevo 2 anni, i miei ricordi sono quelli dei suoi amici calciatori: Mariolino Corso, Luisito Suarez, Mauro Bellugi, Sandro Mazzola, Giacinto Faccetti, Tarcisio Burgnich, Gianfranco Bedin, Aristide Guarneri... E quelli del grande amico di papà, Paolo Saltini, che gli è stato vicino fino all'ultimo, lasciando anche il suo posto di lavoro per questo. Un ricordo, sbiadito ma personale, ce l'ho anche io: papà è di fronte a me, in un lungo corridoio; mi lancia una palla colorata ed io cerco di prenderla.
Una perdita enorme. Ovviamente, in particolare per la vostra famiglia.
Mia mamma appena si nominava qualcosa di lui si metteva piangere, così come mio fratello. Perdere un padre giovanissimo significa perdere un faro, che ti guida nella vita, un porto sicuro dove rifugiarsi. Devo comunque dire che i miei nonni ci hanno fatto crescere non facendoci mancare nulla. Devo essere riconoscente a Paolo, l’amico di papà, che ci è sempre stato vicino: in lui ho trovato un grande appoggio oltre che il grande aiuto da lassù che mio padre ogni giorno mi manda.
Paolo, come è nata la sua amicizia con il capitano nerazzurro?
Lo sport ci ha unito da ragazzi: giocavamo insieme a pallanuoto, a tennis, andavamo a sciare. Giocavamo ovviamente anche a calcio, anche se a me personalmente non piaceva molto. Siamo sempre rimasti legati, anche quando andò a Milano e a Varese. Passavamo intere estati a Livorno, il suo luogo preferito per ricaricarsi. A Milano invece andavamo a sentire musica jazz e spesso Armando cantava, aveva una voce stupenda, oltre che il calciatore poteva tranquillamente fare il cantante.
Ricordi di Varese?
Sì. gli piaceva molto la città, la riteneva a misura d'uomo. Abitava in una villa a due passi dal palazzetto e dallo stadio. Quando aveva tempo libero andava a giocare a basket con i giocatori della grande Ignis. Nel periodo varesino si era anche sposato con Francesca e lì aveva abitato con Leo in fasce. Aveva metabolizzato la delusione di essere stato "scaricato" da Herrera , dove da capitano spesso non aveva paura a portare avanti le sue idee. Andavamo a mangiare al Bel Sit, luogo meraviglioso, dove amava mangiare il dolce tipico del posto, i Brutti e Buoni. Andavamo anche a Stresa in una pasticceria artigianale, amava portare i dolci a sua moglie e lui... Era molto goloso!
Un aneddoto varesino?
Si era innamorato di una villa particolare, in una via della periferia della città. Un giorno suonò al proprietario e chiese informazioni sul progetto per poi iniziare a Livorno i lavori di costruzione della sua casa ispirandosi a quella. Purtroppo non ci andò poi mai ad abitare.
Leo, una storia particolare del papà?
Una da calciatore, poi da allenatore, e una terza di... vita. Sandro Mazzola mi raccontò che in una partita contro il Torino fu scelto per tirare un calcio di rigore. Mio padre capì subito l'emozione del giovane Sandrino: così lo avvicinò, lo guardò fisso negli occhi e si mise in ginocchio per pulirgli la scarpa con la maglietta, per poi esclamare "ora tira e segna". Per quanto riguarda la sua breve carriera da allenatore, il ricordo è legato alla Domenica Sportiva presentata allora da Alfredo Pigna. Papà era già ammalato e aveva dei dolori fortissimi alla schiena: chiese di essere lasciato libero dopo la breve intervista; chiaramente gli fu dato il consenso, però prima di andare via si alzò e strinse la mano al conduttore, ringraziandolo. Sono molto affezionato poi alla sua vita, alla sua religiosità e fede, al suo modo di aiutare gli altri. Pensi che da ragazzo ho scoperto tante lettere di ringraziamento di persone che mio padre aveva aiutato e nella sua riservatezza nessuno sapeva nulla.
Con l’amico Paolo è rimasto in contatto?
Eccome. È l'ancora che mi lega a papà. Io ho l'onore e l'onere di portare questo cognome e mi auguro di meritarlo sempre. Quando ascolto Paolo, sapendo che sono stati così tanto legati e in sintonia, mi sembra di ascoltare papà e di scoprire sempre qualcosa di nuovo. C’è un qualcosa di speciale tra noi e anche dopo 50 anni dalla scomparsa di mio padre c’è sempre la voglia di riscoprire un tassello che fa parte del mosaico della sua vita. Breve, ma che ha lasciato un segno indelebile sia nel calcio che nel sociale.