Moreno Ferrario, un biancorosso alla corte di Maradona. Classe 1955, fu mister Peo Maroso a lanciare questo ragazzo prodigio nel panorama calcistico nazionale. Il difensore lainatese, tuttora residente a Parabiago, inizia presto e da subito ha le idee chiare: vuole giocare al calcio, tutto il resto è noia.
Inizia come tutti all’oratorio, facendo poi alcuni provini. Viene subito notato dagli osservatori del Como e del Varese: quasi per magia, sceglie i biancorossi. Arriva così nella scuola calcio varesina dove si fa subito notare per la sua concretezza, per la sua maturità e per la sua serietà, pur essendo poco più che adolescente. Proprio in virtù di queste qualità il Peo - che vedeva lungo - lo chiamava "il tedesco", vista la sua mentalità e il fatto che non sgarrava in niente. In prima squadra a 16 anni, disputa due campionati di serie B giocando 40 partite.
Ferrario, ci racconta il suo periodo nel Varese?
Una parentesi di vita fantastica. È stato un onore giocare con giocatori come Chicco Prato, De Lorentiis, Dalle Vedove, Della Corna e Carletto Tresoldi, che è stato il mio tutor. Ne nomino solo alcuni, ma l’elenco sarebbe lungo: era un gruppo fantastico, con due coach super come Riccardo Sogliano e Peo Maroso. Pur essendo un ragazzino vivevo per il pallone e non avevo distrazioni. Mi sono fidanzato a 15 anni con una donna straordinaria che 6 anni più tardi è diventata mia moglie e mi ha accompagnato senza mai ostacolarmi nel mio sogno, seguendomi sempre e ovunque, regalandomi serenità e tranquillità. Ancora adesso siamo felicemente insieme dopo quasi 50 primavere tra fidanzamento e matrimonio.
Come è andato poi a giocare nel Napoli?
Sogliano e Maroso mi tenevano d’occhio per il mio comportamento... da tedesco. Un giorno entrambi mi chiamano dicendomi che erano in procinto di firmare un contratto con il Napoli e mi fecero la proposta di andare con loro: non mi sembrava vero, dissi subito sì; con quei magnifici due sarei andato anche in Australia tanto mi fidavo. Poi purtroppo, per ragioni economiche e tecniche, il Napoli non fece il contratto né a Maroso, né a Sogliano: una proposta arrivò solo al sottoscritto. Mi consigliarono di accettare e così iniziai la mia avventura a Napoli, dove rimasi dal 1977 fino al 1988.
Con i napoletani fu amore a prima vista?
Direi di sì. Ho giocato in azzurro 311 partite, ho conquistato il posto da titolare, a 18 anni feci l'esordio anche nella Nazionale Under 21... Seguivo scrupolosamente i consigli dei "senatori", Bruscolotti e Vinazzani, che mi misero davanti la realtà della tifoseria partenopea, che voleva massimo impegno e pochissime distrazioni. Entrai in simpatia subito, tanto che nel 1981 quando sfiorammo la promozione purtroppo feci un autogol al già retrocesso Perugia: potete immaginare come mi sentivo. Eppure i tifosi e i compagni mi fecero sentire tutto il loro affetto.
La rivincita arrivò...
Sì. Ironia della sorte, segnai il gol decisivo contro la Juventus nello scontro diretto nel 1987 quando diventammo campioni d'Italia. Pensate che l'ambiente napoletano mi diede così tanta sicurezza che negli anni a venire fui il primo rigorista del Napoli.
Lei ha giocato con Maradona: cosa ci racconta?
Io parlo di Diego dal punto di vita calcistico e umano. Era un uomo spogliatoio, non ha mai fatto valere la sua superiorità di grande campione. Parlava sempre a nome del gruppo e mai singolarmente. Era il primo a difendere i compagni e l'allenatore. Adorava i ragazzini, si divertiva tantissimo in partitella con i giovani, si sentiva uno di loro. Quando palleggiava o toccava il pallone si capiva che fosse un mago... Io parlo del calciatore, del campione, dell'uomo spogliatoio: il resto non mi interessa.
Dopo quasi 400 partite con il Napoli e l'esordio in Coppa Campioni contro il Real Madrid, passò alla Roma.
Non tutte le belle favole finiscono bene: fu un brutto momento, Andammo via io, Claudio Garella, Salvatore Bagni, Bruno Giordano... Era il 1988 e fu un triste momento. Andai alla Roma e ci rimasi per un anno: fu un trasferimento con tanta amarezza. Poi l'anno successivo passai in serie B all'Avellino con alcuni miei ex compagni azzurri, Massimo Filardi, Costanzo Celestini, Giuseppe Taglialatela e Francesco Baiano, che conoscete bene visto che è stato il vince di Beppe Sannino nel più bel Varese degli ultimi anni. Con gli irpini rimasi due anni e sfiorammo la promozione in serie A.
Da difensore è vero che veniva chiamato "gancio" o, in dialetto varesino, rampin?
Mi diede questo soprannome Gigi Riva, perché restavo incollato come un francobollo all'attaccante: per me fu un grande onore da un campione del genere.
Dopo Avellino cosa fece?
Andai al Siena, a Carrara, al Saronno. Poi iniziai ad allenare e questo grazie al mio grande amico Silvio Papini che mi portò a fare esperienza nelle giovanili del Lugano per poi passare al Verbano, al Tradate, alla Gallaratese. Attualmente faccio parte della giovanili del Legnano: un ruolo che mi dà grande gioia, allenare i ragazzini è una cosa straordinaria che mi riempie di soddisfazione. Vedere ragazzi pieni di entusiasmo migliorare giorno per giorno è bellissimo.
Chi deve ringraziare per la sua carriera calcistica e non solo?
Sono tre le persone a cui devo tanto, se non tutto. Sicuramente Sogliano e Maroso, che mi hanno scoperto. Poi, come anticipato, Silvio Papini, che mi ha aiutato in un particolare momento della mia vita in cui stavo per prendere delle decisioni importanti: è stato lui ad aprirmi la strada per fare l'allenatore. E ancora adesso è l'unico che sento come amico nel mondo del calcio.
Lei ha un nipotino che gioca al calcio: seguirà le sue orme?
Non lo so: per ora si diverte. Ha sette anni e non gli metto pressione, deve giocare, divertirsi e studiare. Il calcio deve essere passione. Di certo i tempi sono cambiati: i tifosi sono rimasti uguali, invece le società devono fare business e i calciatori si affezionano meno alle maglie. Le più grandi soddisfazioni arrivano dal settore giovanile, dove abbiamo straordinari preparatori: la vittoria agli Europei ha dimostrato che abbiamo un buon patrimonio di giovani calciatori.