Il segnale era uno «zzz» prolungato, seguito da inequivocabili gorgoglii. La lunga canna di gomma era entrata in azione, c’era aria di festa e di competizione, nel giorno di Ferragosto se ne sarebbero viste delle belle nei due campi di bocce di fianco a casa, e lo zampillo controllato ne dava in qualche modo il via.
A governarlo era il signor Alfonso, inquilino della casa di fronte e cuoco della mensa dell’Ospedale del Ponte, nel tempo libero curatore dei due campi di bocce vanto della trattoria del Natale, la leggendaria “Osteria del Ponte”, rinomata non solo a Varese per i risotti e l’“oss büs”.
Ho vaghissimi ricordi del Natale, in quei primi favolosi anni Sessanta, ma ho bene in mente la moglie Clementina e la figlia, la sciura Carla, quasi un quintale di bonomia, che la domenica toglieva dal congelatore una “Negrita”, una “Melita” e una Coppa alla vaniglia da 120 lire per papà, gelati quasi obbligatori in estate nel dì di festa, completati di solito dalla torta meringata semifredda -che andava prenotata- acquistata dalla mamma per il mio compleanno, il 10 agosto.
La domenica, nella bella stagione, sotto il pergolato di uva americana, sedevano i giocatori di briscola e scopa d’asse, davanti a diversi “mezz liter de ross”, il cui consumo era direttamente proporzionale ai decibel delle voci e agli acuti di “Quello delle fragoline”, un rubizzo personaggio che quando era un po’ su di giri intonava sempre “Fragole e cappellini”, un calipso portato al successo dal “reuccio” Claudio Villa con il Duo Fasano.
Quando il sole incominciava a calare, entravano in scena i giocatori di bocce, alcuni dei quali avevano fatto parte del consesso dei cartari, pronti a smaltire con un po’ di movimento la “cassoeula” e i “nervitt” divorati a mezzogiorno, e come digestivo c’erano sacramenti che volavano per i rigoli sbagliati e accuse reciproche tra puntista e rigolista, un lessico poco adatto agli orecchi di un bambino di cinque anni qual ero allora.
Ma a Ferragosto, tutto cambiava, lo diceva lo «zzz» della canna del signor Alfonso, baffi a manubrio e testa calva come i sollevatori di pesi dei circhi della Belle époque, e in realtà una pasta d’uomo, che aveva allevato una cornacchia insegnandole le prime note dell’“Inno di Garibaldi”.
L’Alfonso era maniacale, in quella vigilia di festa doveva preparare i campi per la gara regionale che si sarebbe svolta il 15 in notturna e che aspettavo con ansia, potendomela godere da dietro la rete metallica che separava il nostro giardino dal terreno di gara. Non sarei potuto andare “di là”, assieme al nonno, a sedermi sotto il pergolato e ad assistere alle sfide, i bambini non erano ammessi.
Il cuoco dapprima spazzava le foglie cadute dai magnifici ippocastani in fila tra un campo e l’altro, poi dava una bagnata con la canna, faceva rotolare un grande rullo per spianare ogni piccola gibbosità e lisciare la sabbia, quindi intingeva lunghi fili nella polvere rossa di mattone per segnare sul terreno le linee di gioco. Una controllatina alle assi e ai tabelloni segnapunti -erano marcati “Coca-Cola” e darei non so cosa per averli oggi- e il gioco era fatto, i campi erano lisci come biliardi.
Il Ferragosto in famiglia era in effetti un giorno come un altro, le vacanze al mare erano terminate da un po’, papà aveva le ferie a luglio, e l’unica trasgressione era rappresentata a mezzogiorno dal gelato Alemagna, invece del solito Chiavacci della sciura Carla, un piccolo lusso rappresentato dalla sontuosa, per noi bambini, “Coppa Smeralda” all’amarena e dalla “Cassata” o lo “Zuccotto” per i miei. Ma l’evento della giornata era la gara di bocce, con i campi illuminati dai lampioni e la sabbia che brillava, giocatori mai visti prima e bocce incredibili di metallo, piccoli pianeti in movimento.
Si giocava in silenzio, i garisti nella divista della bocciofila di appartenenza, la voce era quella dell’arbitro, «preso», «sola», e del rigolista che dichiarava «boccia punto al volo» o «pallino», niente smadonnamenti e accuse, tutto filava liscio e a fine partita gli avversari si stringevano la mano. Io, appeso alla rete metallica, ero all’interno di una favola, avrei voluto con tutto me stesso essere là, con una boccia in mano, magari quella argentata o l’altra nera marezzata di giallo, che si adagiava sempre a pochi centimetri dal pallino.
Ho ancora negli orecchi il cozzare delle sfere, un suono che immediatamente mi riporta ai giorni felici dell’infanzia, quando il nonno mi portava con sé al Circolo di Bosto, dove pure c’erano due campi di bocce, con il Coronetti macellaio che “stampava” il punto con rigoli efferati, non sbagliando quasi mai il bersaglio. Quando la sua Simca 1000 era parcheggiata di sbieco davanti al circolo, lo spettacolo si preannunciava assicurato, con il nonno che anticipava: «Ul Curunett l’è già ‘rivà».
Nonno Felice era stato un grande puntista e qualche volta lo chiamavano ad arbitrare, ed io lo guardavo dalla balconata davanti all’aranciata che mi comperava per tenermi buono. Lui beveva solo “Coca-Cola” e ne vinceva anche qualcuna, grattando sotto il tappo e trovando il simbolino della vittoria in quel concorso a premi di sessant’anni fa. Tra una partita e l’altra, i giocatori si appartavano nella saletta del circolo a vedere la tappa del Giro d’Italia in televisione, allora un lusso di pochi.
Ma la gara di Ferragosto dal Natale era l’evento culminante dell’estate, la consacrazione del signor Alfonso come curatore dei campi -stranamente non era appassionato di bocce e non guardava le gare- e la gioia massima per me, che sognavo un giorno di partecipare alla sfida, puntista come il nonno, con una coppia di bocce d’argento lanciate verso il pallino.
Dalla domenica successiva si sarebbe tornati alla normalità, con le lotte furibonde tra il Maserati, tecnico non di fuoriserie ma di macchine per scrivere, e il partigiano Lanzini, mentre il Baroni si scatenava al rigolo con il grido «alla Baronaaa», quasi sempre in coppia con “Quello delle fragoline”, ben imbenzinato ma in quel caso poco canterino. Tra non molto sarebbe incominciato il campionato di calcio, e sotto il pergolato del Natale, dalle radioline, Roberto Bortoluzzi, dallo Studio centrale, avrebbe dato come di consueto la linea ai campi per i risultati dei primi tempi, dopo la pubblicità dello Stock 84. «A te Ameri…», con nonno, papà ed io a trepidare per la Juventus e il Varese. La schedina, come ogni sabato, era stata giocata al bar Regina, due colonne che mio padre custodiva nel portafogli e purtroppo mai estrasse con la gioia sfrenata del tredicista.















