La storia di Adriano Reginato, il portiere che con il Cagliari detiene un record imbattuto e forse imbattibile - 712 minuti senza incassare gol nelle prime otto partite di campionato: nessun altro portiere e nessun'altra squadra sono mai arrivati a tanto -, è qualcosa di magicamente straordinario. Adriano, 86 primavere e origini venete ma cagliaritano di adozione e nell'anima, fece parte di quel glorioso Cagliari degli anni 70 che ha fatto innamorare l’Italia, riempiendo d'orgoglio il popolo sardo e la sua terra.
Adriano, come inizia la sua avventura?
Da ragazzino ero un calciatore come tanti, finché un giorno venni spostato in porta. A 16 anni lasciai la scuola per andare a lavorare in fabbrica: mi allenavo nel dopolavoro di una squadra vicino a Carbonera, località veneta in provincia di Treviso dove sono nato il 19 dicembre 1937. Il Treviso, allora in serie C, mi chiamò perché entrambi i portieri si erano infortunati e mi fece esordire contro il Piacenza. Proprio al Treviso conobbi Mario Barluzzi, grande numero 1 e straordinario preparatore che poi sarebbe arrivato a Varese portando in dote ai biancorossi la sua grande esperienza tecnica. Nel 1963 ecco la chiamata in serie A del Torino allenato da Nereo Rocco: per me fu l’apoteosi. Mi alternai in qualche partita tra i pali con il grande Lido Vieri. Sotto la Mole rimasi sino a fine 1965, per poi passare al Vicenza: appresi la notizia del trasferimento durante il viaggio di nozze perché a quei tempi andava così. Per un anno difesi la porta del Lanerossi, rimpiazzato solo dal grande Franco Luison solo in caso di infortunio. A fine campionato arrivò la svolta della mia vita: la chiamata del Cagliari. Giunsi in Sardegna con mia moglie Luciana e mio figlio di pochi mesi con l’intenzione di fermarmi per una stagione... mi innamorai subito della gente e di questo paradiso terrestre dove vivo ancora benissimo dopo tanti anni con figli e nipoti.
In Sardegna inizia un nuovo e lungo capitolo della sua vita: ce lo racconta?
Fu Scopigno a volermi, come poi scoprii: in quel calcio, infatti, le cessioni ad altre società avvenivano a insaputa dei giocatori. Mister Scopigno mi lanciò titolare e fu una stagione magnifica: c'è il record di imbattibilità (i primi 712 minuti del campionato senza prendere gol) ma c'è anche Gigi Riva che, con 18 reti, è capocannoniere nonostante il grave infortunio subito nell'amichevole dell'Italia in Portogallo contro i lusitani di Eusebio. Era una squadra eccezionale che giocava in un ambiente straordinario. L'anno successivo, purtroppo, subisco un brutto infortunio e vengo sostituito degnamente da Pianta. Anno 1968: arriva Enrico Albertosi, già portiere della nazionale, ed è evidentemente il titolare. Dopo l'iniziale rivalità, diventiamo amici, perché Ricky è una persona umanamente straordinaria tant'è che tuttora ci sentiamo. Tra noi è nato un legame molto intimo: sono anche stato il padrino di battesimo a sua figlia Elisabetta. Fare la riserva ad un campione come Albertosi, uno dei portieri di forti d’Italia, equivale a giocare titolare. Eravamo molto legati e per dimostrare la sua grande stima Ricky mi fece giocare parte del secondo tempo nell’ultima gara contro il Bari allo stadio Amsicora nell’anno dello scudetto. Una sola cosa voglio puntualizzare ad Albertosi.
Quale?
Finiti gli allenamenti, lui se la filava in spogliatoio e io rimanevo in campo con Gigi Riva, che si fermava a provare tiri e calci di rigore e che dovevo cercare di parare... un'impresa ardua... partivano certe sberle che facevano male alle mani. Allora non c’erano né guanti né pantaloncini imbottiti e per noi portieri era dura. Se poi avevi davanti uno come Gigi... vi lascio immaginare: aveva una grande forza nelle gambe che si è fatto calciando i durissimi palloni di cuoio di quei tempi.
Rimaneva davvero solo sul campo a parare le bordate di Gigi?
Si fermava con me anche un promettente ragazzo: Renato Copparoni. Per alcuni versi il nostro destino si è incrociato perché anche lui, in seguito, giocherà nel Torino. "Coppa" è il mio figlioccio calcistico, ancora oggi ci vediamo spesso: un grande portiere.
Ci racconta qualcosa di Gigi Riva?
Ancora oggi faccio fatica a metabolizzare la sua scomparsa. Riva ha sempre dato l'esempio come calciatore, dirigente e uomo.
Vi trovavate spesso?
Fino a qualche anno fa si andava a mangiare dall’amico Giacomo alla Stella di Montecristo, dove Gigi si sentiva a casa, insieme al gruppo che era rimasto in Sardegna. Ovvero quello formato da Tomasini, Greatti, Nenè, Brugnera, Martiradonna, Poli a cui ogni tanto si aggiungeva qualcun altro.... Serate indimenticabili. Gigi si informava su tutto di noi ed era sempre pronto a dare una mano, come del resto ha fatto con il nostro grande compagno Nenè. Poi l’età è avanzata, qualcuno purtroppo lo abbiamo perso e abbiamo anche lasciato a malincuore l’ottima cucina di Giacomo: i superstiti si vedevamo a casa di Gigi, con il Tomas (Tomasini) che è stato l’ultimo a vederlo.
Parlavate di ricordi passati?
Mica tanto. Parlavamo del Cagliari, che è sempre nel nostro cuore. I nostri argomenti erano figli e nipoti. E la famiglia. Gigi provava gradissimo affetto per le sue nipoti e grande stima per i figli Nicola e Mauro. Ci raccontavamo le emozioni che i nostri nipoti ci davano. Dietro la sua parverza che metteva soggezione, Gigi era un uomo molto sensibile, specie con i bambini, i ragazzi e le persone in difficoltà. Dava confidenza a chi decideva lui e aveva un grande pregio: capiva subito le persone, gli bastava scambiare pochissime parole.
Anche lei ha un particolare legame con la Sardegna.
È una regione troppo bella, ti stupisci ogni volta dei suoi mille volti. E non finisci mai di conoscerla.
Il ricordo più bello della sua carriera?
Lo scudetto che ruppe gli equilibri degli squadroni del Nord Juventus, Milan e Inter. Con questa grande impresa abbiamo contribuito a dare un nuovo slancio alla Sardegna. Io conobbi compagni meravigliosi e un grande trascinatore. Il ricordo che conservo nel cuore è l’affetto dei sardi, vivo ancora oggi, e l'amore per questa regione senza eguali.
Cosa è cambiato nel calcio di oggi?
Noi allora vincemmo con un gruppo, un gran portiere, qualcosa di speciale in attacco e un grande allenatore. Oggi subentrano nuove variabili… è tutto un altro mondo… Non si possono fare paragoni, cosi come non si possono fare confronti con il ruolo dei portieri di ieri e di oggi. Eravamo kamikaze senza guanti né pantaloncini imbottiti: ci si buttava su terreni duri, spesso senza erba dove si usava la segatura nella zona delle porte. E poi…
Mi dica.
Dai, il discorso diventa lungo…. Devo raggiungere l'amico Tomas per andare al Poetto a fare una camminata.
COPPARONI: «ADRIANO MAESTRO DI VITA»
Reginato ha parlato del suo "figlioccio calcistico" Renato Copparoni, che noi abbiamo contattato per rivolgere queste parole al maestro Adriano.
Regi mi ha preso in consegna giovanissimo con i suoi preziosi consigli. Mi ricordo i ritiri: dividevamo la camera e mi dava fondamentali indicazioni sulla preparazione atletica, sull'alimentazione, sulla posizione tra i pali. Ho anche avuto la fortuna di averlo come preparatore: una persona veramente competente, un maestro di vita e un vero signore. Ci vediamo spesso, anche a qualche evento che la tifoseria sarda organizza, o alla presentazione di libri. Ci siamo purtroppo rivisti anche qualche giorno fa al funerale del nostro compagno di squadra del tempo Cesare Poli.