Va bene tutto, ma non va bene tutto.
Saremo inguaribili romantici legati al calcio d'altri tempi, dove non bastano due righe sui social per dirsi addio, ma va fatto di persona e con argomenti chiari e puntuali, e saremo pure abituati a centinaia e migliaia di calciatori non solo del Varese che se ne sono andati seguendo le loro opportunità economiche in tutte le categorie, dalla B all'Eccellenza, ma arrivare alla sera-notte del 1° luglio per sentirsi salutare con un pensierino su Facebook da un giocatore che il Varese ha fatto grande (sì, è il Varese ad averti dato l'opportunità che nessuno ti ha dato e ad avere creduto in te dopo la stagione della salvezza vissuta tra mediocrità e guai fisici, caro Kenneth Mamah: anche attendere le persone dagli infortuni è una dote rara in questo mondo, non te ne sei accorto?) e da altrettante, risicate e beffarde parole di chi lo rappresenta o lo considera un suo grande campione, sempre su Facebook, beh, questo è tutto tranne che riconoscenza e il modo giusto di comportarsi nel momento dei saluti nei confronti del "tuo" pubblico e della "tua" società.
Non basta sentirsi dire grazie, né che "passano treni che non è possibile perdere" come quello che ti porta al "Göztepe Sport Kulubu della serie B turca", né che il "Varese e il Città di Varese mi rimarranno sempre tatuati addosso", o che "tornerò sempre in città, appena gli impegni professionali me lo consentiranno" (sempre che anche i nostri ci consentano di accoglierti ed essere presenti al tuo ritorno). Non ci basta un "Forza Varese", né - paradossalmente - che tu abbia segnato 14 o 100 gol in maglia biancorossa, oppure nessuno, carissimo Mamah.
Il Varese, e chi ha creduto in te (che non è una sola persona, altrimenti non saresti arrivato da nessuna parte, nemmeno alla tua grande occasione turca, ma decine, centinaia, forse migliaia di persone), si lascia in qualunque altro modo, tranne che in questo: con un messaggino su Facebook la sera di venerdì 1° luglio, anticipato a qualche amico, o con un incontro ravvicinato in società dove non c'è stata neppure possibilità di rilanciare o trattare, perché la decisione era già presa chissà da quanto.
Se si dice di amare il Varese - perché farlo? - non ci si comporta così, come se fosse una cosa scontata lasciarlo, trattandolo dall'alto della Turchia al basso della Lombardia, ma lo si ama nella vita e sul campo, tutti i giorni e nel modo di scegliere e affrontare il proprio destino, guardando negli occhi chi rappresenta il club, a cominciare dai tifosi. Spiegando, motivando, argomentando. Non comunicando dispacci come ai tempi del telegrafo: non siamo una buca delle lettere o una bottiglia nel mare dove inviare un messaggio, abbiamo un cuore e un'anima. Da affrontare e rispettare, non con un poema omerico, ma nemmeno con uno screenshot o WhatsApp.
Purtroppo o per fortuna, il modo in cui ci si dice addio è l'ultima cosa che resta, per sempre, nella vita. Più di gol, promozioni, retrocessioni e prestazioni.
In tanti se ne sono andati, anche con rivendicazioni e critiche feroci, dal Varese, diventandone poi "nemici" sul campo, ma dalla porta principale. Non dall'ultima finestrella in cima a Facebook. Quindi, caro Kenneth, sali pure sul tuo treno: noi restiamo sul nostro.