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Storie | 06 luglio 2020, 17:00

IL LIBRO. "Quel dolce nome" tra confessioni imprevedibili e frammenti di esistenza

Nel romanzo del giornalista e scrittore comasco Mario Schiani letteratura e realtà si mescolano per raccontare pezzi di umanità e di memoria. Un distillato prezioso dalla scrittura implacabile che esplora falsi pudori e debolezze umane

IL LIBRO. "Quel dolce nome" tra confessioni imprevedibili e frammenti di esistenza

Ci sono libri che entrano in circolo goccia a goccia, come un distillato prezioso, e arrivano a riempire le cellule di un umore dolceamaro, denso di memorie e cose non dette, sacralità violate e falsi pudori. Libri dalla scrittura implacabile e ritmata, come un rataplan di morte, ma nel contempo pieni di paure esorcizzate al limitare dell’esistenza e di confessioni furiose e imprevedibili.

Mario Schiani è un giornalista di penna fina, responsabile della pagina culturale del quotidiano “La Provincia” di Como, forte di un’ironia cavazzoniana nel recinto di parole cesellate, potente nelle linee del romanzo, come dimostra “Quel dolce nome” (Giovane Holden, pp. 242, euro 14) affresco dai toni goyeschi sul rapporto padri figli, butterato da colpe e dinieghi, colmo di rimpianti e parole non dette, sentimenti mal corrisposti e rancori inaciditi.

Il personaggio cardine del libro è un anonimo uomo anziano, noto per la sua colpa, vera o presunta, ricoverato in ospedale per un intervento quasi banale a causa di un male dettato dall’età e dal tormento interiore, assistito dalla figlia Giulia, unica persona ad avere un nome, e in maniera artisticamente distante dalla moglie, che da tempo ha staccato la spina e coltiva una monomania filo pittorica. 

L’uomo è in bilico tra la volontà di anonimato e la rappresentazione di sé stesso, teme il confronto con l’esterno, il riconoscimento della sua colpa e la condanna a prescindere, e così avviene in un primo tempo all’atto del ricovero, quando gli altri degenti lo ricoprono di insulti, imitati in maniera meno palese dal medico e dalle infermiere, in un’atmosfera cupa e grottesca insieme, resa plastica dalle luci bluastre della stanza d’ospedale, dalla quale sembrano quasi arrivare odori di corpi stantii e parole ruminate nell’acido. 

Il colpevole, o presunto tale, ha paura, teme che lo uccidano sotto i ferri, l’esito celato di un elettrocardiogramma gli inocula il sospetto che il suo cuore sia malato e nessuno glielo dica, e intanto il destino, con simenoniana pervicacia, macina le ore e i giorni, ammorbandogli il corpo e la mente, mentre intorno a lui si compie un girotondo di sguardi e intenzioni, curiosità per il “mostro” e voglia sfrenata di complicità. Ma tutto sottotraccia, nel silenzio della corsia, interrotto soltanto dalle preghiere in apparenza sgangherate di un prete prossimo al giudizio di Pietro.  

L’umanità prodotta da Schiani è ferma nelle sue convinzioni, sclerotizzata nei suoi vizi, i padri sono a volte padroni, come l’uomo dai capelli grigi, altre assenti o presenti soltanto per giudicare e condannare, i figli privi di personalità o incistati nel genitore, inglobati nelle sue paturnie e limitati anche nella fantasia, nella sessualità, destinati a una vita di serie B, ombre a cui è concesso un solo raggio di sole nell’intera esistenza.  

Il male attrae, alla lunga ci si avvicina come il ferro alla calamita, la colpa dell’uomo senza nome è nota, orribile, ma a lui non si confessano le gioie, soltanto le pene e i rimpianti, la sporcizia da cui non ci si lava.  Eppure, anche nella sospensione dei sentimenti, l’amore scava una galleria profonda, attraverso la quale Giulia raggiunge il cuore di suo padre, lo stimola con la passione condivisa per i libri -in cui lei si rifugia in cerca di verità, fuggendo la realtà- ne protegge la figura così sconciata dagli insulti, ne conserva la memoria, ricostruendone la fisionomia come si fa con un puzzle, a fine corsa, davanti a un’infermiera che forse è una proiezione di sé stessa, la sua immagine specchiata, su cui far rimbalzare ricordi costruiti ad arte.

Nelle confessioni che l’uomo dalla prostata malata, innocente per i giudici ma eternamente colpevole e demonizzato per l’umanità, riceve prima dell’intervento, la più inquietante è quella della figlia dell’uomo dai capelli grigi vicino di letto, una “donna topo” che il padre ha ucciso in vita, e a quarant’anni conserva un unico ricordo piacevole, «la breve visione del mare da una scalinata. Un fotogramma dell’infanzia miracolosamente risparmiato dalle radiazioni di mio padre».

Un’altra “madeleine” gli arriva dal delirio mistico dell’infermiera dalle grandi tette, fenomenale nel distinguere le proprietà organolettiche, in forma di un vecchio 45 giri del genitore, segno solitario di musica in casa, un flamenco che racconta di abiti dei colori dei sentimenti e di un unico grande amore. Frammenti di esistenza e di memoria, assorbiti dal malato come un tè o una flebo, destinati a perdersi insieme al baluginio dei neon della stanza d’ospedale, all’odore di brodaglia e malsani sudori.  

Mario Schiani è uomo di molte letture, la sua è una scrittura educatissima, vi si colgono echi della grande letteratura mitteleuropea, venature sveviane, mezze luci dostoevskiane, e la grande capacità del narratore è quella di annullare l’incidenza del tempo, muovendo i protagonisti in un palcoscenico sospeso, in cui letteratura e realtà si mescolano senza cannibalizzarsi a vicenda, restituendo al lettore una compiuta biografia del male, spesso travestito da misericordia.

Alla fine gli errori e le colpe viaggiano su un binario unico e infinito, che taglia in due il paesaggio dell’esistenza, osservato a volte dal finestrino del vagone con compiaciuto distacco, altre con angoscia e frustrazione, quasi mai con compassione e sincerità di affetti. In fondo, sembra dirci il narratore, i personaggi rinchiusi nella stanza d’ospedale, padri e figli a loro volta figli e padri, si portano addosso il loro carico di odio e di invidia, e le “confessioni” vicendevoli appaiono soltanto una singolare gara al dolore più acuto, al male peggiore, al rancore più grande, gettato in faccia all’altro quasi come un trofeo di cui vantarsi. Una finta alleanza, tra giudicanti e giudicati, nel nome di una comune abiura dei sentimenti, così fuori moda oggi, in un mondo opacizzato da un formidabile, lattiginoso egoismo.

Mario Chiodetti

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