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Varese | 06 novembre 2023, 09:30

Gianni Raio e la sua indimenticabile Santa Lucia: «Nei piatti mettevo la mia storia. Ormai a Biumo ero sul lato sbagliato della strada»

La storica pizzeria di via Carcano, chiusa da agosto dopo essere stata aperta nel novembre 1961 da papà Belluno e mamma Carmela, era stata portata avanti da inizio anni '80 assieme alla moglie Daniela: «Dopo il Covid sono cambiate molte cose». Tra i must la pizza "7 odori", la "Raclette" e la "Sciù sciù". «Collaboro al mercatino di Natale, ma a quello che fondai nel 2001 e poi affossato arrivavano anche 18 pullman di visitatori...». I sapori e i profumi della Santa Lucia sopravvivono grazie a Daniela in via Cavallotti a "Il coniglio e la carota"

Gianni Raio e la sua indimenticabile Santa Lucia: «Nei piatti mettevo la mia storia. Ormai a Biumo ero sul lato sbagliato della strada»

«Nel novembre del 1961, mio padre che di nome fa Belluno, diede via a questa bella pizzeria, che subito chiamò Santa Lucia, ricordando “quella piazza di mercato dove lui faceva il ciabattino”, per riempire il suo vuoto borsellino. Poi venne qui a Varese con la mamma, che senza perder tempo fece subito cantare i suoi fornelli, mentre cresceva quattro piccoli monelli. D’allora molte cose son cambiate, ma ancora oggi quando preparo il nuovo impasto, alzo gli occhi al cielo e scruto la luna, mentre i miei ospiti aspettano con pazienza la nuova sfornata».

Gianni Raio ama a tal punto questa sua poesia da recitarla a memoria, un testo che dimostra la passione per un locale, la Pizzeria Santa Lucia di via Carcano 14, per anni punto di riferimento modaiolo per i varesini e laboratorio culinario in continua evoluzione, grazie alle sue idee di chef sempre pronto a indagare e sperimentare. Oggi il locale è chiuso, e un altro pezzo storico della Varese dei sapori scompare per sempre, insieme ai ricordi di chi l’ha frequentata - compreso chi scrive - trovando una cucina innovativa e sana, un ambiente familiare e un décor da grande ristorante.

«Fu mio padre, chiamato Belluno perché perse il suo genitore in guerra proprio in quella città, ad aprire il locale insieme a mia mamma Carmela. Siamo originari di Tramonti, un paese della Costiera Amalfitana proprio sotto Ravello. Da lì venivano tutti i pizzaioli campani», spiega Gianni Raio, che dall’inizio degli anni ’80 era al timone del ristorante, assieme alla moglie Daniela.

«Ho frequentato la scuola statale alberghiera “Amerigo Vespucci” a Milano per tre anni, allievo di Abramo Magnani, che faceva parte della squadra campione del mondo di cucina classica e insegnò a Gualtiero Marchesi. Durante gli anni di corso facevo pratica estiva, così andai a Londra da Simpson’s, a Milano da Giannino e a Grosseto al Faggio Rosso. Poi, dopo il diploma, lavorai con alcuni grandi chef italiani e stranieri».

Gianni, nel 1977, fece il servizio militare nei paracadutisti nonostante soffrisse di vertigini, e durante la naja era diventato lo chef di cucina per il circolo ufficiali di Pisa e per il Bagno estivo dei parà a Tirrenia.

«Al mio ritorno presi in mano la pizzeria dei miei e la trasformai gradualmente, donandole un’estetica da ristorante di alto livello. Però la mia cucina, almeno fino agli anni ’90, era un copia-incolla delle altre, con i soliti piatti, senza una mia impronta personale. Ebbi una lunga e pesante crisi professionale, mi salvò un amico mental coach, che mi suggerì di guardare dentro me stesso e tirar fuori le mie radici, i profumi e i sapori della mia terra d’origine, le tradizioni culinarie locali. Mi disse, insomma, di mettere nei piatti la mia storia».

Raio incomincia la sua rivoluzione interiore in consonanza con quella della sua cucina, e in breve il ristorante cresce e la clientela della Santa Lucia diventa numerosa e selezionata.

«Decisi di raccontare storie attraverso i menu. Sul lato sinistro dello stampato narravo per esempio l’Italia del lavoro, da fine ‘800 agli anni ’40, oppure la nascita del whisky, dei formaggi o del vino, e sul destro i piatti relativi. Poi rivoluzionai la cucina, abbandonando la lezione francese, mettendo al bando grassi animali, burro e panna, e trasformandola in mediterranea, basata sull’olio d’oliva extravergine. Eliminai il fritto e il soffritto che non si usa nella cucina partenopea, niente aglio, e cottura a freddo».

Gianni modificò anche la “salsa bianca”, alla base di ogni cucina insieme a quella rossa, a base di pomodoro, e alla bruna di carne, mettendo al posto di burro, farina di frumento e brodo, olio Evo, farina di riso e acqua di cottura, ottenendo cremosità senza coprire i sapori dei diversi ingredienti.

«Creai “La magica”, che armonizzava i sapori senza prevaricarli. Poi passai alle pizze, con l’impasto fatto lievitare per tre giorni e la diminuzione della proporzione tra lievito e farina. Sei grammi di lievito per nove chilogrammi di farina, invece di un grammo per un chilo. Usavo tre tipi di farina, la 00, il tipo 1 e quella di semola. La pizza è un contenitore, e il far lievitare la pasta a lungo fa terminare il ciclo del lievito e la rende digeribile».

Tra i “must” della Santa Lucia c’erano la pizza “7 odori”, con mozzarella fiordilatte che arrivava proprio dal caseificio La Rosa di Tramonti, erbe aromatiche, olive taggiasche e zucchine julienne messe a crudo alla fine, la “Raclette”, con formaggio fuso e patate cotte con foglie d’insalata, sottaceti e speck, e la più gettonata, la “Sciù sciù”, in napoletano “dolce dolce”, dal nome di un gatto di famiglia, con mozzarella, pomodorini, friarielli e salsiccia.

«Davo ad alcune pizze il nome degli animali di casa, o delle passioni di famiglia. Avevamo la “sala Pinocchio”, con il poster del film di Benigni, perché mia moglie colleziona memorabilia legate al celebre burattino, e naturalmente la “pizza Pinocchio” con pomodorini rossi e gialli, mozzarella, ricotta al limone e gamberi dei mari freddi».

Ora tutto appartiene a un recente passato. «Ho chiuso lo scorso agosto, dopo il covid sono cambiate molte cose, sono stati aperti nuovi locali con una cucina diversa dalla mia e proposte particolari rivolte spesso alla clientela più giovane. In più il quartiere di Biumo inferiore non è più ben frequentato come prima e il mio locale era dalla parte sbagliata della strada, accanto a negozi non proprio eleganti», sostiene Gianni Raio, che si è preso un periodo sabbatico ed è in attesa di proposte interessanti a Varese.

Ma la famiglia non rimane ferma, perché la moglie Daniela gestisce da 15 anni “Il coniglio e la carota” in via Cavallotti, nel pieno centro della movida, pizza al trancio fatta con la “filosofia” culinaria del Santa Lucia, con un forno all’avanguardia senza cappa che smaltisce i fumi e trasforma il vapore in energia. Gianni poi lavora con la Pro Loco di Varese all’allestimento di “Varese sapori”, il mercatino che si tiene cinque volte l’anno in via Marconi. Il prossimo sarà nei giorni dell’Epifania.

«Collaboro anche al mercatino di Natale, e offro lavoro sempre a ditte varesine per la parte tecnica e agli Angeli urbani per la sicurezza. Riusciamo ad avere una trentina di espositori, niente a che vedere, purtroppo, con il “Paese dei Sapori” che fondai nel 2001, con il quale raggiungemmo i 170 espositori da tutta Italia e ben 15mila visitatori in un giorno. Fu il primo mercatino nazionale a cadenza mensile, un fiore all’occhiello che aveva solo Varese, nato grazie all’intuito dell’allora sindaco Aldo Fumagalli e affossato invece dalla giunta Fontana».

Raio racconta che ai tempi di massimo splendore aveva fatto una convenzione con un’agenzia di viaggi per portare i turisti a Varese, con due opzioni, la gita cristiana, con il pranzo nei ristoranti del Sacro Monte, e quella laica, con visita alle aziende agricole e naturalmente sosta al “Paese dei Sapori”.

«Arrivavano fino a 18 pullman per volta, con un indotto importante anche per bar e ristoranti di Varese, ma c’era chi si lamentava. Il mercatino attuale “insubrico” porta sempre gli stessi espositori e gli stessi prodotti, poche bancarelle e scarsa clientela. La gestione va affidata a persone locali che conoscano bene il territorio, un mercatino dei sapori ha senso soltanto se è di grandi dimensioni e nazionale. Lo spazio lo abbiamo, da piazza Monte Grappa a via Marconi, piazza Giovine Italia, via del Cairo, mancano purtroppo le idee, come spesso accade nella nostra città».

 

 

Mario Chiodetti

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