/ Varese

Varese | 19 giugno 2023, 11:13

L'INTERVISTA - Morandini, quando Varese è un'opera d'arte: «Nuovo progetto? Partirei dalle strade perché sono alla base del viver bene»

I primi 83 anni dell'artista e designer che ha provato a cambiare forma al capoluogo: «Bisogna approfittare di ciò che passa da qui e collaborarci». L'opera più soddisfacente? «Avere ricomprato all'asta le mie opere per la Fondazione a costo della rovina economica». Ex Aermacchi: «Servono aree verdi e progetti per bambini, giovani e comunità, non commerciali». Campo dei Fiori: «Funicolare attiva, Grand Hotel restaurato e piccole strutture». E poi le sue due piazze, il teatro, il successo più grande, il rimpianto di gioventù, un mondo in bianco e nero in cui il colore non serve, passioni e passatempi: «Ho sempre amato e coltivato l'inestimabile valore dell'amicizia e attinto all'alfabeto della vita»

Marcello Morandini con la moglie Maria Teresa Barisi, un vulcano di idee e donna dall’entusiasmo contagioso

Marcello Morandini con la moglie Maria Teresa Barisi, un vulcano di idee e donna dall’entusiasmo contagioso

I suoi primi sessant’anni, Marcello Morandini li ha messi in un libro, naturalmente bianco e nero, ma pervaso dalla “sanguigna” del cuore, la passione che lo spinge, a 83 anni compiuti lo scorso 15 maggio, a cercare ogni giorno nuovi stimoli creativi ma a guardare anche al passato, a ciò che ha costruito nel mondo, confrontandosi sempre con altri artisti e prendendo spunto dall’“alfabeto della vita”.

Qui, in via del Cairo 41, nella magnifica sede della Fondazione che porta il suo nome, l’artista e designer nato a Mantova ma varesino fin dall’infanzia, ha raccolto l’opera di una vita, con l’insostituibile appoggio della moglie Maria Teresa Barisi, un vulcano di idee e donna dall’entusiasmo contagioso.

Non sembra di essere nel centro di Varese, e la vecchia villa Zanotti, acquistata nel 2017 grazie alla donazione di due collezionisti e mecenati americani, Karl e Karin -ricordati nei giorni scorsi da una serie di concerti- e restaurata ad arte per accogliere le mostre e la collezione permanente delle opere di Morandini, splende di luce propria, circondata da tassi, faggi e cedri monumentali, oasi di pace nel turbinare del traffico.

Marcello ci riceve al primo piano, poi saliamo al secondo, il suo “sancta sanctorum”, e qui incomincia l’intervista, che in realtà è quasi una chiacchierata tra amici, con domande e risposte che si susseguono un po’ “alla Minoli”, ma c’è tanto da raccontare e probabilmente una puntata non basta. Da qualche parte però, nel mare magnum, bisogna incominciare.

I tuoi primi 83 anni: il più grande successo e il maggior rimpianto.
Umanamente, il mio più grande successo è stato la nascita, nel 1998, di mia figlia Maria Enza, che porta nel nome quelli di mia suocera e di mia madre. Ho altre due fantastiche figlie acquisite, Valentina e Costanza, di Maria Teresa. Dal punto di vista del lavoro, sicuramente la Fondazione, la grande sorpresa di poter radunare il mio mondo intorno a me, con le mie opere, una cosa che ho da sempre desiderato. Il libro che ho scritto è dedicato in parte a Maria Enza, laureata all’Università del Design di Milano e oggi, dopo una brusca virata di lavoro e di vita, tatuatrice professionista a Varese.

Il rimpianto?
Non aver potuto contare su una formazione scolastica adeguata, a causa prima della difterite, che mi colpì a due anni e mi costrinse alla tracheotomia fino a 12, poi della povertà della mia famiglia - mio padre morì nella campagna di Russia -, motivi che non mi consentirono di frequentare l’università e di possedere una cultura più vasta. Se fossi rimasto a Mantova, probabilmente sarei diventato un grande produttore di latte.

I tuoi progetti per Varese. Due piazze, quella di via Casula e Monte Grappa. La prima è diventata ora fatiscente, la seconda ha cambiato la geometria del centro.
La prima la progettai con l’architetto Giovanni Giavotto, e lo studio Arturo Redaelli negli anni ’70. Io disegnai la piazza di 30 metri, il primo lavoro a unire arte e architettura. Un anno e mezzo fa fui contattato dall’assessore ai Lavori pubblici che mi chiese di poter togliere la piazza fatiscente nei necessari nuovi lavori di restauro, e mi trovò d’accordo, gli chiesi solo di riportare sul piano il disegno originale che avevo fatto. Peccato che i lavori non siano mai partiti.

Hai mai pensato a progettare un nuovo teatro per Varese?
Altroché, con Luciano Brunella e Bruno Bosetti vinsi un concorso ex-aequo con un architetto di Torino con un progetto per il teatro. Lo immaginavo, e lo immaginerei tuttora, nello spazio del parcheggio di via San Francesco, con una serie di gradoni con varie funzioni che collegano villa Mirabello al teatro. Lo spazio c’è, e sarebbe in pieno centro.

Stai pensando a un nuovo progetto per la città?
Penso alle strade di Varese, sarebbe dovuto partire un restyling anche di via Robbioni con un mio progetto, ma anche qui, dopo un primo contatto con l’assessore Civati e un imprenditore, tutto si è arenato. Le strade sono importanti, determinano e condizionano il carattere di una città. Sono alla base del concetto di vivere bene, strumento di comunicazione del cuore e della mente. La nuova via del Cairo è piena di gente contenta e nessuno ormai si ricorda più dei parcheggi spariti.

Come vedresti il recupero dell’ex Aermacchi e del complesso di Campo dei Fiori?
Tutta l’area intorno al colosso Aermacchi è condizionata da una mancanza progettuale. Sono contrario a progetti unicamente commerciali in un luogo già saturo di supermercati. Servono aree verdi con spazi precisi adatti ai bambini, ai giovani e alle attività culturali, abitazioni di dimensioni contenute in armonia con il resto, per dare un nuovo esempio di comunità vera e moderna. Il complesso di Campo dei Fiori è un serio problema, io lo valorizzerei per quello che è, con piccoli interventi di restauro del Grand Hotel, che manterrei come albergo, creando però piccole strutture a sostegno e garantendo il trasporto con la funicolare. Rifarei la “cittadella” di inizio ‘900 per creare uno spazio felice e di salute.

Il tuo è un mondo geometrico in bianco e nero: raramente hai usato il colore.
L’ho usato in qualità di designer, mai nella mia ricerca personale artistica, la storia della geometria che costruisco ogni giorno, dove il colore non serve.

La tua più grande passione, a parte il lavoro?
Non so se si può dire. Sono da sempre affascinato dal mondo femminile.

L’opera che ti ha dato maggior soddisfazione?
Non è una soltanto. Direi che ciò che mi ha dato più soddisfazione, ma in cambio della mia rovina economica, è stato l’aver ricomprato, alle aste, da collezionisti privati e gallerie d’arte, ben 25 mie importanti opere per dare continuità temporale alla raccolta permanente qui in Fondazione, opere che mancavano e ora sono ritornate in famiglia per raccontare la loro insostituibile storia.

Quando smetti di lavorare coltivi qualche passatempo?
Ho sempre amato e coltivato l’amicizia, sono certo del suo inestimabile valore. Poi amo la cucina, mi piace ricercare il buon cibo e la sua cultura, ma sono mantovano, e dalle mie parti si dice che l’uomo non deve mai entrare in cucina. Ho sempre seguito il consiglio. Viaggio ancora molto con la mia scatenata moglie, e questo è amore. Poi mi piace ascoltare musica, sinfonica e jazz, non amo l’opera, forse perché mio padre era corista all’Arena di Verona e sentire donnoni che tirano acuti mi indispone. Non capisco la musica dei giovani, contiene forse emozioni che non sono le mie.

Cosa pensi dei tuoi colleghi artisti di Varese?
Sono molti e parecchi sono amici, hanno una grande sorprendente cultura e professionalità. La città dovrebbe meglio conoscere e condividere questi loro valori promuovendo queste forti passioni culturali. Varese è una base dove passa la cultura di molti, ma pochi purtroppo la gestiscono in città. Tra la formazione scolastica e la vita c’è un distacco, e molti rimangono ad aspettare qualcosa che magari non verrà. Varese ha bisogno di un motore collettivo e attivo per approfittare di ciò che passa da qui e collaborarci.

L’intelligenza artificiale può aiutare l’arte?
Ho rispetto per tutto ciò che si sta sviluppando, la tecnologia mi affascina e mi umilia al tempo stesso. Vorrei aver fatto studi più seri per poter comprendere meglio questi cambiamenti. Devo dire che nel mio lavoro la tecnologia non entra, non ho mai usato il computer, non fa parte del mio mondo. Conosco l’alfabeto della vita e delle forme, e ora queste basi sono messe in crisi dall’avanzata tecnologica.

Sei soddisfatto di quanto realizzato finora con la Fondazione?
Devo dire di sì. All’inizio non è stato facile, la Fondazione non è mia, ma della comunità, e se qualcuno potesse darci una mano saremmo in grado di fare molto di più, perché le idee non mancano. Già ci sono amici che ci sostengono. Ho dedicato questo luogo all’Arte Concreta e Costruttiva, il mio mondo, nel quale studio le forme e il modo di capirle, e questo alfabeto serve per ogni cosa. Alla base di tutto, infatti, ci sono le forme, le note musicali e la scrittura, tutte moralmente simili.

Mario Chiodetti

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A LUGLIO?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare 2024" su Spreaker.
Prima Pagina|Archivio|Redazione|Invia un Comunicato Stampa|Pubblicità|Scrivi al Direttore