Esiste, nel mondo dello sport, un muro maestro tanto invisibile quanto fondamentale: quello tra il pubblico e il campo, comprensivo dei protagonisti al suo interno. È capitato, nel corso degli anni, che questo muro venisse sfondato in maniera più o meno violenta: tra i casi più tristemente noti si può citare il calcione di Eric Cantona al tifoso del Crystal Palace nel gennaio del 1995 o la famosa rissa del novembre 2004 con protagonisti gli Indiana Pacers, guidati da Ron Artest, e i supporter dei Detroit Pistons. È successo di nuovo domenica sera, in maniera per fortuna più soft, ma analoga dal punto di vista del viziato meccanismo che nella testa di alcuni spettatori diventa forse legittimo.
Brevissimo riassunto dei fatti: al Mediolanum Forum di Assago l’Olimpia Milano ha vinto gara 2 delle finali scudetto, portandosi sul 2-0. La squadra ospite, la Virtus Bologna, abbandona il campo. Una persona a pochi metri dai giocatori che si avviano verso gli spogliatoi pensa bene di toccare (più o meno violentemente, ci torneremo dopo) Milos Teodosic, che immediatamente reagisce entrando a sua volta in contatto con la stessa. In suo aiuto interviene il suo compagno di squadra Daniel Hackett: pochi lunghissimi secondi di parapiglia generico e i giocatori vengono costretti al tunnel.
Indubbio che la portata del fatto sia nettamente inferiore a quella dei due casi sopracitati, ma certamente c’è un qualcosa che li mette in un unico grande calderone. Che il personaggio di ieri sera abbia toccato, spinto, accarezzato (i social già impazzano per qualificare il gesto) o qualsiasi altra cosa Teodosic, ha valicato quel muro invisibile. Perché lo ha fatto? Cosa gli ha fatto credere che lo potesse fare? Perché lui ha pagato il biglietto e allora può farlo? Perché la sua squadra ha vinto? Perché loro hanno perso e quindi devono accettarlo?
Di chi o che cosa è la responsabilità di questo gesto? Forse di una (non) cultura sportiva che fa sentire i "tifosi" autorizzati a fare qualcosa che vada oltre al consumare il prodotto sport, ma a diventare il prodotto sport. Si può discutere sulla reazione (spropositata o meno, ognuno farà la sua valutazione) dei due giocatori, che la "giuria popolare" valuterà in una maniera che va dalla positivista (Non va fatto, punto e basta) alla decadentista (Hanno reagito d’istinto, ci sta) ma anch’essa rimane sempre frutto di questo scettro simbolico che il presunto tifoso si sente di tenere in mano e che, sempre presumibilmente, gli consente di sfottere lo sconfitto.
Quando il muro tra campo e spalti viene sfondato (sfondato, non transitato tramite una porta spalancata, come avviene durante il giro di campo della Pallacanestro Varese alla fine di ogni partita) colpevoli e vittime si ammucchiano e si sovrappongono, e ciascuno dei protagonisti mette il mantello da supereroe o fa il ghigno da cattivo a seconda della testa della persona in cui si trova.
Anche alla luce dei provvedimenti disciplinari, qui nessuno vuole fare il processo a nessuno, ma semplicemente osservare le macerie rimaste a terra di quel muro idealmente indistruttibile, fosse anche costruito di carta, grazie a una certa cultura di fruizione del prodotto pallacanestro o qualsiasi altro sport.