Il fenomeno che va sotto il nome di “Infezione Ospedaliera” (rectius: “Infezione Correlata all’Assistenza” – I.C.A.) costituisce una sfida significativa per la comunità scientifica e rappresenta, in ogni realtà sanitaria, un evento avverso con morbilità, mortalità e costi aggiuntivi rilevanti.
L’infezione ospedaliera è, per definizione, una infezione che non era presente all’ingresso del paziente in Ospedale, ed i cui sintomi e segni insorgano nel corso del ricovero (a partire dal terzo giorno in poi). L’infezione trae spesso origine dalla presenza di microrganismi patogeni opportunisti in ambiente nosocomiale e può dare diritto – in alcuni casi e purché ricorrano determinate condizioni – ad un risarcimento danni in favore del paziente che l’ha contratta o, in caso di decesso, ai suoi congiunti.
In linea di principio, deve ritenersi che le infezioni siano prevedibili ed evitabili, perciò il criterio guida interpretativo deve essere rappresentato dalle regole giuridiche vigenti in materia di responsabilità medico-sanitaria, ha natura contrattuale.
Dunque, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o del contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato rilevante.
In sostanza, deve reputarsi sussistente la responsabilità della struttura sanitaria nella genesi di una Infezione ospedaliera, eventualmente spettando alla stessa Struttura l’onere di dimostrare di aver agito nel pieno rispetto delle regole di diligenza e prudenza qualificata e proporzionata alla natura della prestazione.
Nell’adempimento di siffatta probatio diabolica, la Struttura avrebbe dunque l’onere di documentare di aver posto in essere e rispettato le più idonee ed efficaci misure, attinenti specificamente (a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo):
- all’attuazione (e non alla mera adozione) di protocolli relativi a disinfezione, disinfestazione, sterilizzazione di ambienti e materiali;
- alle modalità di lavaggio delle mani da parte del personale;
- all’uso dei dispositivi di protezione individuale;
- alle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
- al sistema di smaltimento dei rifiuti solidi;
- alla qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;
- alla modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
- all’organizzazione del servizio mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
- allo smaltimento dei liquami e alla pulizia di padelle e simili;
- all’istituzione di un sistema di sorveglianza e notifica;
- all’istituzione del Comitato Infezioni Ospedaliere ed alla relativa attività;
- ai criteri costruttivi strutturali atti a evitare le infezioni;
- al controllo e alla limitazione dell’accesso dei visitatori;
- al controllo dello stato di salute dei dipendenti e degli operatori (basti pensare che costituisce fattore favorente le infezioni anche il fatto che infermieri e medici possano operare in precarie condizioni di salute, eventualmente al fine di evitare decurtazioni stipendiali);
- all’adeguatezza del rapporto tra degenti e personale sanitario;
- alla pianificazione ed attuazione di continui controlli sulle attività di cui sopra.
In realtà, se tali misure venissero correttamente adottate (e pedissequamente rispettate), il fenomeno delle infezioni correlate all’assistenza subirebbe un drastico ridimensionamento.
Analizziamo ora il caso di infezione contratta in cardiochirurgia e la conseguente morte del paziente.
Il sig. Ottavio (nome, ovviamente, di fantasia) aveva 77 anni al momento degli eventi, ed era affetto da steno-insufficienza valvolare aortica severa e da aneurisma dell’aorta ascendente.
Egli venne ricoverato presso un importante Ospedale privato della Capitale, al fine di sottoporsi ad intervento chirurgico di sostituzione della valvola aortica e dell’aorta ascendente.
L’operazione fu regolarmente eseguita; all’esito, il sig. Ottavio fu stato trasferito in Terapia Intensiva e, poco dopo, presso l’U.O.C. di Cardiochirurgia. Dimesso successivamente dalla Casa di Cura, venne inviato in un apposito Istituto per la gestione della fase subacuta e la riabilitazione cardiologica.
Sennonché, lo stesso giorno della dimissione, i sanitari dell’Istituto di riabilitazione constatarono la presenza di una “secrezione siero ematica dalla ferita sternotomica”, su cui venne eseguito tempestivamente un tampone, che documentò la presenza di numerose colonie di Staphylococcus epidermidis.
Il paziente fu perciò prontamente dimesso dall’Istituto di riabilitazione, per essere ritrasferito presso la Casa di Cura privata ove gli era stato praticato l’intervento cardiochirurgico. Ad undici giorni dal ritrasferimento, il sig. Ottavio fu sottoposto a TC-torace, all’esito della quale vennero disposte ed eseguite broncoscopia con coltura del materiale broncoaspirato ed urinocoltura, le quali avrebbero evidenziato – in data successiva al decesso – la massiva presenza (più di 100.000 UFC/ml) del batterio Pseudomonas aeruginosa.
Il quadro respiratorio e le condizioni generali del sig. Ottavio ebbero progressivamente a scadere fino al decesso, sopraggiunto qualche giorno dopo per “insufficienza multiorgano” da infezione nosocomiale. La salma del sig. Ottavio, sulla quale non fu effettuato riscontro diagnostico, venne quindi posta a disposizione dei familiari per le esequie.
Nel giudizio è stata sottolineata la tardiva diagnosi e gestione della infezione ospedaliera da polmonite, la quale è derivata da una cattiva prevenzione del rischio infettivo, risultando in atti solo generica documentazione attestante l’eventuale adozione di linee guida e certificati di qualità da parte della Struttura Sanitaria, ma non la prova della concreta attuazione delle stesse. Non era stato, invero, depositato alcun registro giornaliero di disinfestazione e pulizia dell’ambiente operatorio, né alcuna delle campionature che è doveroso effettuare per controllare l’efficacia delle misure di prevenzione astrattamente adottate.
Inoltre, la Struttura Sanitaria aveva depositato in giudizio due verbali delle riunioni tenute dal Comitato Infezioni Ospedaliere (pur senza produrre l’atto di costituzione dello stesso C.I.O.), da cui si era appreso che:
– il Comitato si era riunito – in 2 anni – soltanto in due occasioni;
– la durata delle riunioni era stata esigua (meno di un’ora per ciascuna);
– i verbali risultavano estremamente laconici;
– infine, e soprattutto, gli unici argomenti rilevanti nell’economia del giudizio – lotta alle infezioni negli interventi di cardiochirurgia – non erano mai stati trattati, in nessuna delle (due) riunioni, per reiterata assenza dei relatori.
Sembrava, dunque, che il C.I.O., ammesso e non concesso che fosse stato costituito, avesse presso l’Azienda in questione un ruolo meramente formale o, in ogni caso, operasse in modo manifestamente inidoneo ad assolvere le funzioni normativamente assegnatagli .
Pertanto, acclarata la sussistenza della colpevolezza dell’Azienda Sanitaria, confermata altresì la sussistenza del nesso causale (nella sua accezione del “più probabile che non”), il Giudice ha ritenuto di formulare una proposta di conciliazione della controversia che prevede il pagamento delle seguenti somme in favore dei congiunti del paziente deceduto per malasanità:
- € 290.000,00 alla coniuge superstite convivente;
- € 250.000,00 alla figlia superstite convivente;
- € 210.000,00 al figlio superstite non convivente,
per complessivi € 750.000,00, oltre rifusione delle spese di lite e di C.T.U.
La vicenda non deve spaventare nessuno.
Purtroppo il rischio di contrarre infezioni, vieppiù nel corso di interventi invasivi, è sempre concreta e possibile.
Devo però dire, anche per esperienza personale, che sul tema, i medici dell’Ospedale di Varese, sono molto sensibili ed attenti.
Quindi massima fiducia e..incrociamo le dita!
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