«Coach, da dove viene il suo cognome? Czarnecki non rimanda propriamente alla Svezia…».
Un giornalista lo spera, anzi lo sa, che dietro a una domanda può nascondersi sempre una storia: è un po’ la sua ragione di vita professionale fare di tutto per sbatterci contro il muso e poterla così raccontare. Quanto scoperto in una delle prime interviste al condottiero che da questa stagione sta cercando di riportare i Mastini a ripetere i fasti sportivi dello scorso anno, però, ha avuto le stigmate di una gemma autenticamente rara.
La risposta di Niklas Czarnecki al semplice, persino banale, interrogativo di cui sopra ci ha infatti svelato i connotati di una vicenda lontana e drammatica, fatta di crudeltà, di stoica resistenza e infine di un’insperata salvezza. Ma soprattutto quelli di una scelta così particolare, amorevole e significativa da essere in grado di svelare generosamente le profondità dell’animo di chi l’ha compiuta.
«Czarnecki è un cognome polacco - ci aveva effettivamente replicato il coach giallonero, confermando i nostri dubbi - E io l’ho preso dal nonno di mia moglie, cambiandolo con il mio».
Mettetevi seduti.
Tadeusz Czarnecki era un 18enne come tanti nella Polonia della Seconda Guerra Mondiale. Era un giovane che lottava contro un’invasione e un’oppressione ingiuste, violente, sanguinarie. Far parte della resistenza, ribellarsi al Nazismo, voleva dire rischiare la libertà o direttamente la vita, in una lotteria crudele e cinica. Oppure prima una e poi l’altra, come accadeva purtroppo alla maggioranza di coloro che, dopo l’arresto, prendevano la via dei campi di concentramento.
Anche a Tadeusz toccò in sorte la deportazione: «Fu mandato ad Auschwitz-Birkenau - racconta Niklas fornendo i particolari - dove rimase due anni. Era giovane ed era forte ed ebbe la fortuna di riuscire a sopravvivere, anche se solo per un soffio. Quando gli Alleati arrivarono a liberare il campo, lo trovarono steso per terra, immobile, apparentemente privo di vita: pensando fosse morto, lo misero insieme agli altri cadaveri rinvenuti, sotto a una coperta. A un certo punto, però, i soldati si accorsero che quella coperta si muoveva, così liberarono Tadeusz e gli provarono il battito: il suo cuore era ancora in funzione».
La corsa contro il tempo per salvarlo lo porta in Svezia, dove viene ricoverato in ospedale: «Ci rimase per due anni - continua l’allenatore - e si rimise completamente. Non solo. In quello stesso luogo trovò chi l’avrebbe accompagnato per il resto della vita: sposò infatti l’infermiera che più si era presa cura di lui, dalla quale ebbe quattro figli. Il primo fu proprio il padre di mia moglie».
Il lieto fine al quadrato ce lo ha messo il coach: «Quando mi sono sposato - spiega - ho sentito l’esigenza di rendere onore a questo grande uomo e alla sua epopea, e ho deciso di prendere il suo cognome». Niklas Helgesson diventa così Niklas Czarnecki, in un passaggio formale pieno di sostanza, di sentimento, ma anche di quella responsabilità che solo gli uomini speciali sentono di avere di fronte alla Storia con la S maiuscola, che altro non è che un lungo filo che lega il prima e il dopo, tessuto dalla memoria condivisa. E da gesti del genere.
Quanto vissuto da Tadeusz Czarnecki negli abissi di Auschwitz è diventato anche un libro, famoso in Svezia: “Sono sano e sto bene” è la traduzione del titolo, che riprende l’incipit delle poche righe che Tadeusz riusciva a scrivere alla madre mentre era prigioniero nel campo di concentramento, in messaggi che avevano come primo obiettivo quello di non far preoccupare troppo la povera genitrice, ignara di quanto capitava lì dove gli uomini non erano più uomini.
“Sono sano e sto bene” - si legge in una recensione - è il racconto di ciò che è realmente accaduto dietro al filo spinato dei campi, nonché della gerarchia che si era instaurata nel tempo tra i prigionieri. È una storia davvero raccapricciante che, per la maggior parte, consiste in atti di sadismo e oppressione inimmaginabili. Ma è anche la storia di tutti quei pensieri terribili che albergavano nella mente dei deportati, per esempio la sera, quando il fumo usciva dai grandi camini dei forni crematori e l'odore permeava ogni cosa. È un libro estremamente emozionante, ma allo stesso tempo triste, orribile e spaventoso».
«Quando Tadeusz era ancora in vita - conclude Niklas Czarnecki - ricordo che ebbi una stagione difficile in SHL, il massimo campionato svedese. Con la squadra che allenavo finimmo nei playout per non retrocedere e io vedevo i miei ragazzi pieni di paura. Così chiesi a lui di scrivere qualcosa da leggere ai giocatori nello spogliatoio e lui lo fece, raccontando loro ciò che aveva passato e concludendo il tutto con uno sprone: “Andate la fuori e divertitevi, sono altri i veri problemi della vita”. Beh, ci salvammo senza problemi. E ancora penso che sia stato bellissimo che lui abbia fatto questo per me».