Come un deja vu, stasera, per noi che da fuori guardiamo e ogni volta un po’ moriamo.
Come uno scambio di persona: quante volte Varese è stata Verona negli ultimi anni?
La risposta è facile: tante. Quasi sempre, per la verità. E allora tutti sappiamo bene come funziona.
Verrebbe da citare una scena di Romanzo Criminale (il film), nella quale Riccardo Scamarcio, il Nero, racconta che gli uomini che si vedono una pistola puntata in fronte, trovandosi a un passo da una morte certa, cambino improvvisamente: chi è stato spavaldo tutta la vita piange; chi ha messo spesso il coraggio sotto al cuscino, invece, tira fuori un orgoglio, una forza e una temerarietà inaspettati.
Succede anche nel basket: le squadre con l’acqua alla gola, durante il girone di ritorno mutano faccia, spirito, indole e soprattutto giocatori. Diventano pericolose, in primis perché sconosciute: prime le batti, poi cambiano pelle e allora ti ritrovi davanti un avversario quasi completamente nuovo, cui prendere da capo le misure. Come se non bastasse, poi, la disperazione, la vicinanza della morte sportiva, fa emergere risorse prima impensabili. Vi ricordate, vero, che due anni fa la Varese di Massimo Bulleri si è salvata dalla retrocessione battendo Milano al Forum, nel più inaspettato dei testacoda?
Pertanto: che Verona abbia questa sera messo alle corde i biancorossi non era nemmeno quotato. Per averne ragione, la squadra di Brase ha avuto bisogno di una corda e di una cordata, con 5 giocatori diversi alternatisi a tirare.
La corda è stata come sempre la fiducia nel sistema: anche nei momenti più duri, quando i tiri programmati non sono entrati (come all’inizio) e Verona è parsa esattamente capire ogni mossa, Varese non ha abbandonato lo spartito. Varese piuttosto si fa male, ma non cambia: per tanto tempo questo ci è parso un limite, e a volte ancora ci sembra tale, ma forse bisogna iniziare a guardare le cose anche da un’altra angolazione.
La fiducia è una strada, forse non sempre sicura, ma di certo sempre illuminata.
La cordata.
I primi a tirare sono stati Woldetensae e De Nicolao. Scriviamolo chiaramente: senza di loro, in un frangente nel quale serpeggiavano confusione e irretimento, stile terzo quarto a Sassari, la Openjobmetis sarebbe affogata nel punteggio, probabilmente in maniera definitiva. Mani veloci in difesa, pressione restituita a chi con la stessa stava provocando sanguinante ferite, triple (nel caso di Wolde) a spezzare il digiuno. È stato importante che il riscatto arrivasse dalle supposte seconde linee: le squadre che aspirano a diventare grandi - e le grandi vere - hanno tanti motori.
Poi riecco Johnson, finalmente. Un primo tempo di insistiti e inutili palleggi davanti a difensori che non gli concedevano nemmeno un millimetro di gloria, ripresa ficcante, volitiva, concreta. Quanto è importante JJ, anche se pare contorno nel piatto stagionale… I suoi uno contro uno, propedeutici a trovare i tiri ammessi dal sistema, diventano vitali quando Ross viene bloccato.
Ed ecco proprio Ross, a un certo punto. Che non deve più sorprendersi delle mani che gli mettono addosso quelli con le canotte di colore diverso, delle guardie speciali appiccicate al suo palleggio, del catenaccio quasi trapattoniano che ne va a contenere gli spunti. Eppure per 20 minuti è stato così, alla stregua di quanto accaduto al PalaSerradimigni: e allora via di nervosismo, palle perse e disequilibrio a contagiare tutti i compagni. Solo poi è arrivata la pazienza, l’acume per trovare ugualmente soluzioni efficaci e un ritmo più sincopato a scalfire la resistenza di Cappelleti e altri birri in gialloblù.
Infine Owens. Owens e il suo ditone. Quattro “no” in nemmeno 10 minuti, dopo aver lasciato credere a Smith e Davis non di aver vinto ma di aver stravinto la battaglia sotto le plance. Con la dimostrazione che - a volte - sono le giocate difensive a essere decisive, persino all’interno del “sistema”.
Cinque scalatori e una corda. Per scalare una montagna difficile. E per ribadire la “regola”: in tanti in questo campionato rimarranno dietro Varese. Ieri, oggi e domani.