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Storie | 08 dicembre 2018, 04:20

«L’Hospice è un percorso d’amore. Fino all’ultimo giorno»

La Onlus Sulle Ali ci ha invitato a conoscere la struttura dell’ospedale del Circolo che accompagna i malati terminali e le loro famiglie negli ultimi giorni di vita. Ognuna delle persone con cui abbiamo parlato ci ha lasciato un pezzettino di sé, mentre ci raccontava questo reparto così difficile e speciale: attraverso le loro parole, proviamo a farlo anche noi

«L’Hospice è un percorso d’amore. Fino all’ultimo giorno»

Ascolto, lacrime, silenzio, carezze, mani tenute. Un caffè a tarda notte, l’abbraccio dei nipotini, le coccole al proprio cane, una sigaretta in giardino. Stanze grandi, letti doppi per dormire con i propri cari. Rabbia, dolore e paura. E leggerezza, gioia, sollievo, forza, attenzione, aiuto, compassione, cura. Famiglia. Amore. 

Ecco, amore. Un circolo d’amore. E un percorso d’amore. Il cui traguardo è accompagnare nel migliore dei modi i malati che non hanno più possibilità di guarigione fino alla morte.

QUANDO NON C’È PIÙ NULLA DA FARE, SI APRE UN MONDO DI POSSIBILITÀ
Questo è ciò che abbiamo imparato dai medici, dagli infermieri e dai volontari dell’Hospice, il reparto «più vivo di tutto l’ospedale. Dove non c’è produzione, non ci sono obiettivi né statistiche, non c’è fallimento. Dove non c’è l’obbligo di guarire perché altrimenti è un insuccesso. Qui l’unico insuccesso è pensare che con un ammalato e la sua famiglia si potesse fare di più. Qui sappiamo già cosa succederà alla fine: è il come a fare tutta la differenza del mondo. Così dice il dottor Grizzetti: “quando il medico che cura per guarire dice che non c’è più nulla da fare, sembra tutto finito: invece si apre un mondo di possibilità”. Cosa significa? Che nel momento in cui dal punto di vista medico non c’è più nulla da fare, non vuol dire che tutta la medicina si fermi, faccia un passo indietro e stia a guardare la fine. C’è invece un percorso di accompagnamento e di cura del malato in un momento difficile della vita». 

Le parole sono di Giovanni Verga, presidente dell’associazione Sulle Ali Onlus, che ci ha invitato a conoscere l’Hospice: la struttura, i servizi, le storie. E soprattutto le persone, quelle che fanno la differenza in un momento così delicato e profondo per un essere umano e per i suoi cari. Intorno a un tavolo, ognuno di loro – mentre ci donava un pezzettino di se stesso – ci ha raccontato qualcosa dell’Hospice. Attraverso le loro parole, proviamo a farlo anche noi. 

LA STRUTTURA
Sono tre i servizi dell’Hospice. Il ricovero, con 10 posti letto. La domiciliare, che ha in carico una media di 50 pazienti con picchi superiori ai 60. L’ambulatorio di antalgia, dove viene curato il dolore cronico, un diritto di ogni cittadino capace di migliorare sensibilmente la vita di chi soffre.

Partiamo dalla struttura, inaugurata all’interno dell’Ospedale di Circolo nel 2010 e sistemata in modo da essere il più confortevole possibile non solo per il paziente, ma anche per la famiglia che sta accompagnando un proprio caro negli ultimi giorni di vita: spazi e camere grandi, una cucina, letti da condividere per passare la notte insieme al proprio marito o moglie, mamma o papà, figli. «Tutti dobbiamo morire. La differenza tra farlo bene o male è la possibilità di essere accompagnati da persone specializzate, con la propria famiglia accanto. Famiglia che, a sua volta, ha bisogno di essere guidata, per capire che è un evento della vita: che succede, che non è cattiveria, che non è sfiga. Che fa piangere, soffrire, incazzare: altroché. Ma che è la vita»

All’Hospice «non ci sono i ritmi della corsia: non ci si alza alla mattina presto, non ci sono visite da fare. Quando ci si sveglia, ci si sveglia, anche perché magari uno ha passato la notte in bianco. Si fa quello che si vuole fare. Qui il paziente detta i ritmi, è al centro di tutto». Come anticipato i posti letto sono 10, con 3 medici, 9 infermieri e 6 operatori socio sanitari a comporre lo staff. A loro si aggiungono i volontari della Onlus Sulle Ali, che collabora con la struttura dalla sua inaugurazione. 

La “sublimazione” (come la definisce Verga) dell’Hospice è il domiciliare, ovvero «la possibilità di accompagnare questa persona, questo essere umano, a casa sua: nel suo letto, nei suoi spazi, nei suoi profumi, nei suoi orari, nelle sue abitudini». Gli infermieri dedicati sono 5 e coprono una media di 50 pazienti, contemporaneamente, su tutto il territorio provinciale. Hanno l’obbligo, da delibera regionale, di accedere a casa del paziente almeno 3 volte a settimana, «ma dipende dal percorso, dalla situazione: ci sono ammalati a cui facciamo visita ogni giorno».

I pazienti raggiungono i servizi dell’Hospice «tramite segnalazione, o da altri reparti dell’ospedale, o dai medici di base o anche dai familiari. Ci attiviamo per un colloquio, presentiamo le possibilità (l’Hospice o il domiciliare), valutiamo il da farsi. Ovviamente la struttura qui all’ospedale deve tenere conto della disponibilità del posto letto, ma l’importante è tenere in rete il paziente: se non c’è posto ci rivolgiamo ad altre strutture Hospice. Sul territorio, oltre a noi, ci sono la residenza “I pini” di Besano, il “Camelot” di Gallarate e la “Bassani Menotti” di Laveno Mombello. Il domiciliare invece non ha problemi di numeri: di fatto siamo il reparto più grande dell’ospedale perché in linea teorica abbiamo posti infiniti. Ovviamente il tutto dipende dal numero di risorse a disposizione». 

LE PERSONE
«È giusto spendere una parola per tutti gli operatori – i medici, gli infermieri, i volontari – per spiegare come affrontano questo momento. Sapete, non esiste un’università che insegni ad accettare la morte: in tutti gli altri reparti è un insuccesso, qui è una qualità di vita. Alcuni di loro sono qui da 10 anni: ci vuole grande forza. Ma l’accompagnamento è ormai entrato nella loro vita in una forma quasi virale». 

Il “segreto”? «Vedere il bicchiere mezzo pieno. Pensare a quello che si può fare. Sapere che c’è un modo di dare qualità alla vita fino all’ultimo dei giorni. Sono rapporti molto intensi, soprattutto quando si entra a casa delle persone, nella loro intimità: bisogna farlo in punta di piedi, nel massimo rispetto delle abitudini familiari, cercando il giusto compromesso». 

Operatori che sono un punto di riferimento costante: «Possono chiamarci a tutte le ore, del giorno e della notte. Una reperibilità non solo telefonica, ma anche di persona: se c’è bisogno, prendiamo e usciamo. E il supporto non è solo per il malato, ma anche – a volte, soprattutto – per i familiari. Questo per il parente a casa è un sollievo, un appoggio, un aiuto importante. All’Hospice si considera la persona viva fino all’ultimo respiro e così non si lavora solo per quella persona, ma per tutta la famiglia. Che non è un soggetto passivo, anzi: viene molto attivata». 

Anche perché questa fase «al di là del significato che ognuno dà personalmente alla morte, è un momento di grandi opportunità: di risoluzione dei conflitti, o anche dell’esasperazione di questi conflitti. Sono momenti in cui ogni persona deve sentirsi libera di risolvere tutto quello che può e vuole: questioni pratiche, relazionali, affettive. Noi aiutiamo il paziente e tutto il suo contesto a vivere il lutto nel modo migliore e più proficuo. Perché anche per chi resta vivere “bene” questo momento permette di andare avanti con uno spirito diverso». 

SI DÀ TANTO. E SI RICEVE ANCORA DI PIÙ
I nostri interlocutori continuano ad aprirci il loro cuore. E ci spiegano come la loro più grande rabbia sia «venire a sapere che una persona, per esempio un anziano, è morto al pronto soccorso: da solo, senza nessuno che lo guarda, nessuno che lo vede. Si tira la tendina e si libera il posto. Per noi è un dolore. Qui c’è un’attenzione spasmodica per la vita». Quando si va in domiciliare, per esempio, «non si possono calcolare i tempi. Non c’è un orario. Nessuno di noi dice “arrivederci, io vado”. Si sta fino a quando è necessario».

Un lavoro di grande sacrificio, fisico e mentale. Che chiede tanto, ma restituisce ancora di più: «Conosciamo tre quarti della vita di ogni paziente e della loro famiglia. Ci raccontano la loro storia, i loro affetti, quando si sono sposati, i momenti felici. E ogni anno facciamo una festa di Natale, in cui invitiamo i parenti dei nostri pazienti che se ne sono andati: sembra incredibile, noi lo facciamo da 6 anni. Certe volte siamo stati addirittura in 200. Ci riconoscono. Ci ringraziano. Fuori di qui ci fermano per strada e ci capita spesso di sentirci dire: “Tu non ti ricordi di me, ma io sì”. Sono cose che restano dentro».

A proposito della festa di Natale organizzata dall’Hospice e dalla Onlus Sulle Ali, l’appuntamento è per venerdì alle 17.30 e chiunque voglia partecipare è il benvenuto. 

LA ONLUS SULLE ALI
La Onlus presieduta da Giovanni Verga collabora con il reparto da quando esiste e lo fa sia dal punto di vista pratico che economico. Pratico, con i suoi volontari. Economico, sostenendo tante spese: acquistando l’attrezzatura o le automobili, sovvenzionando i progetti di aromaterapia, di arte, di musica: «Cerchiamo di riempire le mancanze oppure superare la lentezza burocratica dell’ospedale. Di recente i nostri medici ci hanno detto che sarebbe stato bello avere un ecografo portatile, per non costringere un ammalato che abbia bisogno di un’ecografia a dover venire in ospedale, fare l’impegnativa, aspettare la visita… Lo abbiamo comprato noi: abbiamo lanciato una raccolta, ricevuto le donazioni, pagato 25.000 euro. Stesso discorso per le piccole cose: servono le tende in una stanza? Le compriamo e le istalliamo. Una nostra paziente, architetto, durante i suoi ultimi giorni di vita ha progettato un giardinetto da costruire qui sotto: mica potevamo chiedere all’ospedale di realizzarlo, perché anche giustamente le priorità generali sono altre. Nessun problema, lo abbiamo fatto noi, con una tensostruttura per poter passare qualche ora spensierata, dove vivere qualche momento speciale. A noi piace fare una cosa del genere perché ci siamo passati e sappiamo com’è bello poter avere un servizio in più». 

I volontari sono circa 18. Dal 2010 ad oggi ci sono stati tre corsi, che durano un anno, a cui segue una formazione continua e rigorosa: «La formazione è necessaria, perché si entra in contatto con la dimensione della morte. C’è un lutto da vivere, in modo empatico, ma che non può diventare il proprio lutto. Si fa un colloquio preliminare con uno psicoterapeuta, i formatori e una persona dell’associazione, poi si sondano di continuo la motivazione e l’equilibrio: spesso arriva chi scappa da un lutto, ma questo non è il modo giusto». 

Quello del volontario è un ruolo fondamentale, perché capita spesso che non vengano espresse «rabbia, tristezza, dolore, paura. Sapete perché? Per amore nei confronti di chi sta vicino, a cui non si vuole dare ulteriore peso. Ma queste emozioni vanno tirate fuori per stare meglio. Qui si colloca l’impegno del volontario, che è un soggetto terzo della relazione che comprende paziente e famiglia. È un appoggio, una valvola di sfogo. Facilita le relazioni, partecipa ma senza essere protagonista. Non dà consigli, attiva le parti. Fa domande. Ascolta. Accompagna».

L’associazione «è nata come movimento spontaneo di persone desiderose di ridare alla comunità una parte del bene che hanno ricevuto in un momento difficile della loro vita. Il suo scopo è stare vicino ai medici e alla struttura, per poter garantire agli ammalati qualcosa in più rispetto a ciò che di bello c’è già. Pensiamo alle cose semplici: che l’acqua sia calda, che la sala sia bella e pulita; che il medico e l’infermiere siano contenti; che le attrezzature siano utili e adeguate. Siamo una grande famiglia: non è facile trovare medici e personale ospedaliero che accettino dei “terzi” nel loro reparto. Noi veniamo sempre in punta di piedi. Ma la sentiamo casa nostra».

Progetti per il futuro? «Aprire altri posti come questo: prima o poi sarà necessario. E per noi queste strutture non devono avere del lucro dietro: speriamo sarà sempre come qui, tutto pubblico. Non riusciamo a pensare ad una struttura dove passare gli ultimi giorni della vita che non sia di tutti».

Di cosa vive Sulle Ali? «Di gratitudine. Quella delle persone che hanno portato qui i loro cari a morire. Che ci ringraziano. Che vengono alla merenda di Natale. Che ci scrivono messaggi, ci cercano sui social. Che portano i pasticcini in reparto. Noi viviamo di doni e donazioni. Viviamo di gratitudine».

TUTTO CIÒ È L’HOSPICE
L’Hospice «è un percorso d’amore, di attenzione e cura verso gli altri. Dove si accetta che non si può guarire tutti, ma si può aiutare e accompagnare chiunque. In questo frangente della vita, dove apparentemente non c’è più nulla da fare, ci sono invece ancora migliaia di cose da fare. C’è ancora tanta vita da vivere. La prima cosa è togliere il dolore. Poi provare a rimettere un po’ in sesto il paziente. Dura quel che dura, ma almeno si vive bene: si torna a mangiare la pasta col pomodoro, a bere un caffè, a fumare una sigaretta. Si gioca con i nipotini, si parla col proprio figlio, si coccola il cane. Si dorme nel letto con la propria moglie…». 

E l’Hospice è anche «un circolo d’amore, dove ognuno si sente utile nel fare qualcosa per gli altri, che a loro volta fanno qualcosa per gli altri, che a loro volta fanno qualcosa per gli altri… E così si creano rapporti che durano: tra famiglie e famiglie, con gli operatori, con i volontari». 

Cosa lascia tutto ciò, in voi e nelle persone? «Lascia il piacere di vivere dei momenti di vita interessanti, che danno serenità. Si fa festa a Natale, a Capodanno, a Carnevale; si sta insieme, si ride, si racconta, ci si conosce. In un concetto solo: si vive. I pazienti, quando li salutiamo per l’ultima volta, ci ringraziano, dicono di esserci grati. È qualcosa che ti colpisce nel profondo. E ci piace pensare che i familiari che sono passati di qui siano contenti, perché hanno potuto vivere bene un momento così difficile. E per questo i rapporti durano nel tempo. È una storia che finisce, ma che non finisce». 

Gabriele Gigi Galassi e Enrico Scaringi

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