«Spesso e volentieri il paziente a fine seduta mi chiede: “Quando ci vediamo”? E io gli rispondo sempre: spero mai più, perché significherebbe che stai bene…».
Onesto, schietto, appassionato e umano Luigi Bonifacio lo è sempre stato, in tutti i passaggi della sua vita: quando era imprigionato in una strada che non era la sua, nei primi passi che hanno cambiato il senso delle cose, negli anni trascorsi nello sport e ora in questo sogno realizzato («e inseguito per 25 anni…»).
Il sogno in questione è il protagonista di un "Varese dalla vetrina" molto particolare: stavolta non ci sono un negozio e un gestore dall’altra parte del registratore, ma un professionista e un uomo molto conosciuti in città che con passione si dedicano a una delle “missioni-mestieri” più importanti di questa epoca: aiutare gli altri a recuperare la piena funzionalità del proprio corpo.
“Gigi” Bonifacio è oggi Studio MassoFit in una corte di piazza della Repubblica 5, pieno centro a Varese, attivo da 3 anni, aperto dopo aver fatto parte della parabola vincente della Varesina Calcio: «Se uno crede nei sogni alla fine ce la fa a realizzarli - esordisce il fisioterapista 46enne - Ho passato diverso tempo nei poliambulatori, ma non faceva per me, era una vita che mi stava un po’ stretta. Perché ho scelto il centro di Varese? Perché è comodo, visto che ci sono diversi parcheggi tra cui quello delle Corti, e perché i miei clienti amano venire qui».
Oggi scrivere fisioterapista è dire tutto ma anche niente: come poche altre questa professione si presta a repentini cambiamenti e a essere esplorata: «La chiave è continuare a fare formazione - spiega Bonifacio - Mi sono appena diplomato anche in osteopatia e investo tantissimo nella formazione, perché grazie a dio la medicina va avanti e si continuano a scoprire cose nuove. Per me è anche uno stimolo, perché non riesco a lavorare sempre nello stesso modo: mi piace mixare più tecniche possibili, anche perché si ottengono risultati migliori rispetto alle classiche sedute».
Accanto a lui ci sono Arianna Savo, fisiatra, ed Emanuele Placenza, ortopedico: «Collaborare con loro è una fortuna, anzi un valore aggiunto, perché mi permette di avere indicazioni precise. Quando la clinica non mi convince preferisco sempre passare il testimone allo specialista: davanti al rischio di sbagliare nell’inquadrare il paziente, è giusto fare un passo indietro e acquisire una certezza in più».
Vasta la gamma di pazienti di cui si occupa Gigi: «Dall’anziano che non calcola più nessuno, all’uomo di mezza età che magari ha fatto una vita sedentaria e poi si è dato allo sport, incontrando le tipiche problematiche del caso, ai ragazzi con i problemi di postura legati all’utilizzo degli smartphone, agli sportivi. Le vittorie sono più delle sconfitte: con esercizi e manipolazioni si può arrivare a risultati importanti, senza ricorrere agli interventi».
Per tutti c’è in primis un approccio comune, legato al buon senso, all’esperienza e a quel tocco di umanità che nelle professioni sanitarie è il più grande valore aggiunto per chi lo possiede: «Fare un giusto screening è fondamentale: tante volte il problema lo risolvi con una buona intervista. Inquadrare il paziente significa ascoltarlo, più domande fai, meglio è: l’arcano tante volte si cela dietro a una piccolezza quotidiana. Io innanzitutto cerco di mettere tutti a proprio agio, dalla a alla zeta, affinché possano aprirsi: questo è un modo anche per favorire l’effetto placebo di una persona, effetto che rimane il miglior dottore del mondo. Si tratta di un “sistema proprio”, che sta dentro ognuno di noi: se sei capace di attivarlo significa che sei stato bravo».
Posto ciò, ogni categoria di "ammalato" è diversa e ogni singolo paziente è unico: «Lavoro molto con gli anziani allettati e ritengo che andare al loro domicilio sia un valore aggiunto. Spostare un anziano che non può muoversi è spesso un problema per lui e per chi gli sta intorno. E tante volte il trasporto vanifica il lavoro che facciamo. Aiutare gli anziani immobilizzati è stimolante per me: ti ascoltano molto, sono più diligenti della media perché hanno voglia di tornare in piedi e poi perché vedere una persona costretta a letto riuscire a uscire e tornare ad avere una vita quotidiana almeno domestica, eliminando il dolore, mi dà grande soddisfazione, mi fa tornare a casa felice».
Per l’uomo di mezza età, invece, spesso si deve andare a guardare alla sua professione per scoprire la causa del problema: «Il lavoro influisce sul benessere di una persona, a causa delle scrivanie troppo piccole, delle sedie scomode, delle posizioni sbagliate: lo smart working, soprattutto, iniziato durante il lockdown, ha portato a tanti disturbi critici alla cervicale, alla zona lombare e alla circolazione».
Infine gli sportivi, il vero ambiente da cui proviene Bonifacio: «Con loro si va dal classico massaggio post contrattura, che è come una sorta di tagliando che si fa a una macchina, a problematiche serie post traumatiche importanti, al post operatorio. Il valore aggiunto con gli atleti è, a mio parere, non vederli solo come tali ma come pazienti, perché questo significa non forzare i tempi e permettere loro un recupero pieno. Mi sta molto a cuore anche il post-carriera, un argomento che purtroppo interessa a pochi: se non si fanno le cose giuste, a 45, 50 o 60 anni il fisico di uno sportivo agonista può arrivare a presentare il conto».
Parlare con Gigi di sport significa inevitabilmente tornare a un vecchio e mai dimenticato amore, le Fenici di Venegono Superiore: «La Varesina per me è stata un’ottima palestra, con loro ho fatto un percorso lungo di 7 anni, dove ho avuto la possibilità di vedere e conoscere tante cose, nonché la fortuna di avere a che fare con grandi dottori, che per me rimangono le figure massime da seguire: ognuno ha i suoi ruoli e vanno rispettati».
A fine chiacchierata c’è spazio per un “segreto”, valido per tutti perché vero passapartout dell’esistenza, e per un pizzico di commozione. Il primo è «mettere anima e corpo in quello che si fa, perché davanti a te hai sempre un essere umano, lasciando fuori dallo studio l’orologio: se devo dedicare 10 minuti in più a una seduta, lo faccio. Negli ambulatori questa cosa invece non è possibile: il sistema è frenetico e io non sono adatto a quel sistema…».
Il secondo viene guardandosi indietro: «Alcuni anni fa ho perso mia mamma, Liliana. Quando lei si ammalò, facevo un lavoro che non amavo e in quella sofferenza promisi a me stesso che avrei cambiato vita. Ho mantenuto fede a quella promessa».