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Storie | 09 ottobre 2023, 09:25

9/10/1963 - 9/10/2023. Antonio il "calzolaio" e quella solidarietà di 60 anni fa tra Varese e il Vajont ferito: «Friulani e varesini condividono lo stesso cuore»

A sessant'anni dalla tragedia che provocò duemila vittime il varesino Marco Della Putta ricorda il padre Antonio, nato a Cimolais, che subito dopo il disastro dalla Città Giardino organizzò diverse iniziative per aiutare i suoi convalligiani: «Faceva calzature e perciò si trasferì a Varese, in viale Valganna. Divenne amico di Giuseppe Zamberletti e lo seguì anche in Friuli in occasione del terremoto del 1976»

Il calzolaio di Cimolais trasferitosi a Varese Antonio Della Putta (a sinistra) e la diga del Vajont oggi

Il calzolaio di Cimolais trasferitosi a Varese Antonio Della Putta (a sinistra) e la diga del Vajont oggi

Il paese è parte di noi, il paese non si dimentica, il paese è come una madre che non spezza mai il cordone ombelicale. È il 9 ottobre 1963, quando l’Italia è scossa da una delle più grandi tragedie di sempre, quella del Vajont, duemila morti stimati, alcuni mai ritrovati, polverizzati dallo spostamento d’aria causato da un’onda d’urto due volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima.

Una tragedia prevista, sulla quale non è mai stata fatta del tutto luce, un dramma senza fine avvenuto 60 anni fa, quando l’Italia marciava a pieno regime, immersa nella grande bolla del boom economico e tutto sembrava possibile e a portata di mano. 

La frana caduta dal Monte Toc, 260 milioni di metri cubi di roccia e detriti, riempì la diga e generò una triplice onda: la prima si diresse verso Casso, la seconda distrusse parte dell’abitato di Erto e la terza, circa 50 milioni di metri cubi di acqua, superò l’invaso e si scaricò nella vallata sottostante, cancellando Longarone, di cui si salvarono soltanto le case costruite a nord. Erano le 22,39 e, venti secondi dopo, l’apocalisse.

A chilometri di distanza un uomo, nato a Cimolais, poco distante dai luoghi della tragedia, ascolta alla radio la notizia, vede al telegiornale le immagini del disastro e non perde nemmeno un secondo. Decide di creare un comitato di aiuti, perché le nostre origini non ci lasciano mai, sono conficcate nella mente e nel cuore, e lì lavorano affinché il ricordo non sia mai spento.

Quell’uomo si chiama Antonio Della Putta, e dal 1952 vive a Varese, in viale Valganna, fa il venditore di pantofole e scarpe, batte i mercati di Varese e Luino, viaggia nel nord Italia, si spinge fino a Torino, serve i migliori negozi, in città lo chiamano “il friulano” o “il pantofolaio”. 

Oggi il figlio Marco ci ha inviato una lettera, per ricordare ciò che suo padre fece, spinto dalla solidarietà, non pensandoci due volte, salendo sulla sua Fiat 1100 familiare per portare i primi aiuti e poi costituendo un comitato con garanti alcuni imprenditori della Varese di allora, quando bastava la parola per essere fratelli.

«A Longarone un quarto dei cognomi è Della Putta. Papà aveva otto fratelli, partirono per il fronte greco albanese, tornarono in quattro, lui fu fatto prigioniero e trasferito a Creta. Aveva iniziato nel 1938 come venditore ambulante di pantofole, e una volta aveva raggiunto Torino in bicicletta partendo da Cimolais, impiegandoci due giorni e mezzo. Finita la guerra e tornato al paese, costruì la casa e poi si sposò, nel 1952, ma già da un po’ faceva avanti e indietro con Varese, allora patria delle calzature. Nello stesso anno si trasferì qui e iniziò la sua attività nei mercati. Io sono nato sei mesi dopo la tragedia del Vajont, nel 1964, e ho seguito papà nel suo lavoro fino all’età di 27 anni, poi dopo la laurea ho intrapreso l’attività bancaria», spiega Marco Della Putta.

«Mio padre era molto attento a ciò che accadeva in città e nel mondo, seguiva i consigli comunali, e quando seppe della tragedia si mosse immediatamente per creare una sottoscrizione per raccogliere fondi e portare aiuti sul posto con i camion. Era amico di Giuseppe Zamberletti, e lo seguì poi anche in Friuli in occasione del terremoto del 1976. Partimmo insieme con un camion pieno di calzature e aiuti in direzione Gemona e Venzone, distribuendoli direttamente nelle tende dei rifugiati, sotto la pioggia e in mezzo al fango. “Varese ha un grande cuore e risponde sempre con generosità, laboriosità e voglia di ricominciare. Sono sentimenti condivisi e presenti nella mentalità varesina e friulana”, ricordava sempre papà, che è mancato nel 1999».

Antonio era amico di Mauro Corona e a sua volta scrisse un libro, dedicato al suo luogo d’origine. «Lui è stato un emigrante, ma il suo cuore era rimasto a Cimolais, e il libro, scritto assieme allo storico Diogene Penzi e pubblicato nel 1990 dalla Banca del Friuli e dalla Società filologica friulana, è un atto d’amore verso il paese della sua giovinezza. In “Cimolais, al me paeis”, c’è la storia, ci sono le leggende e le novelle in dialetto e l’arte del luogo. Ricordo che Corona, in occasione della presentazione, disse che papà gli aveva insegnato “come anche queste terre possono raccontare qualcosa”. Il mio genitore era una persona volitiva, era nato il 20 gennaio 1920, nello stesso giorno e anno di Federico Fellini, e una volta il pantofolaio scrisse al grande regista, ricevendo poi una lettera da Cinecittà in cui la segreteria diceva che il cineasta era impegnato nelle riprese del film “E la nave va” e non poteva rispondergli. Papà era fatto così, non si fermava di fronte a nulla».

Quella del Vajont è una ferita ancora aperta, e Marco Della Putta invita a non dimenticare e a visitare la nuova Sala Emozionale inaugurata lo scorso luglio al Centro visite di Erto e Casso, in cui si rivivono gli attimi della tragedia: «Questo museo ci fa comprendere molto bene le responsabilità dei costruttori: ci rammarica che dopo anni di prove e processi, nessuno abbia mai pagato il conto per quei 2.000 morti, di cui oltre 400 bambini, per quelle superstiti famiglie spezzate e per i danni permanenti inflitti a quelle terre».

 

Mario Chiodetti

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