Storie - 20 agosto 2025, 15:16

RACCONTI D'AGOSTO. "Andà a provved" tra le vie della Varese degli anni Cinquanta

Un viaggio nei ricordi del nostro Mario Chiodetti nella città nel periodo del dopoguerra, tra negozi e botteghe presenti in via Mazzini, piazza XX Settembre e via Vittorio Veneto: il Forno Clerici, il salumiere Giorgetti, il droghiere Colombo e tutti gli altri. Nella memoria anche l’acquisto della bicicletta, una Ganna Impero del 1939. Quando tutto era made in Varese…

Via Vittorio Veneto negli anni Cinquanta

Via Vittorio Veneto negli anni Cinquanta

La memoria si sa è bizzarra, prende vie a volte tortuose per arrivare allo scopo, quello di farci ritornare bambini in una città profondamente diversa, che stava ancora risvegliandosi dall’incubo della guerra ma si preparava a vivere gli anni del boom economico. La memoria stavolta prende l’aspetto di un manifesto cinematografico, affisso proprio sotto l’indicazione “via Mazzini”, sistemata sull’edificio d’angolo con piazza XX Settembre e la via Vittorio Veneto, dove aveva sede il leggendario “Forno Clerici”, che accoglie l’inizio di questa storia.

Ingrandendo la scansione della vecchia cartolina, il manifesto appare nitido, si legge il titolo del film, “Samoa”, una pellicola d’avventura con Gary Cooper, così conosciamo la data dello scatto, 1953. Il “Forno Clerici” è stato uno dei luoghi più magici della mia infanzia, in casa lo si nominava spesso per la bontà del pane, e per il fatto che la figlia dei titolari, Tilde mi pare si chiamasse, fosse una stimatissima e temuta insegnante (latino e greco?) che ogni tanto capitava di incrociare in negozio, tappa importante del quotidiano “andà a provved” del nonno, con la sfilata di botteghe da visitare che partiva da via Morosini e terminava all’inizio di corso Roma.

Il primo era il Giorgetti salumiere, all’imbocco di via Morosini, lato destro, una versione ridotta del Paese di Cuccagna, che preparava polpettine di pollo e patate dalla perfetta doratura, vendute in un cartoccetto, la gioia di me quattrenne. A distanza di oltre sessant’anni ne ricordo ancora il profumo e la smania di arrivare a casa per rubarne una come merenda straordinaria. A volte il nonno aveva commissioni da parte della nonna, e allora si entrava dal droghiere Colombo, poco più avanti, dove i profumi si mescolavano e le caramelle si mostravano in tutta la loro colorata bellezza nei vasi di vetro dietro il bancone. Mezzo chilo di zucchero, servito nel sacchetto naturalmente color “carta da zucchero”, le spezie per l’arrosto, e magari lo “Spic & Span” per i pavimenti e il sapone Palmolive, lì c’era tutto, dai cosmetici al caffè, bastava domandare, e il sciur Colombo (non collega della Felicita della commedia di Adami, che era salumaia) metteva sulla bilancia.

Eccoci finalmente alla piazza XX Settembre, dall’agognato “Forno Clerici”, due bastoni francesi e il pane all’olio preferito dal nonno, la cassa sulla destra con il grande registratore a manovella e la campanella che annunciava l’avvenuto pagamento. In tempi precedenti alla mia nascita, la piazza accoglieva sulla destra il Calzaturificio Forzinetti, dove mia nonna lavorò fino alla maternità, e il mitico negozio di fotografia di Alfredo Morbelli, con l’insegna della Leica, dove fece tirocinio un giovanissimo Gino Oprandi. Da bambino ricordo invece le vetrine della Singer, con le macchine per cucire allineate in bella mostra, antagoniste delle Necchi vendute dal signor Cucco in via Vittorio Veneto.

E, parafrasando il titolo del libro di Eugenio Scalfari, “il sabato andavamo in via Veneto” con mamma e papà, e in questo caso la memoria si fa ancora più vivida, perché i negozi frequentati erano tanti, ognuno con il suo carico di bei ricordi, e “piccola piazza” in cui raccontare i fatti della settimana. Era un sabato pomeriggio quando, fuori dalla minuscola edicola “imbucata” dopo il negozio Singer, vedemmo la notizia della morte di Totò con titolo a scatola nel “Corriere d’informazione”, ma il mio desiderio più grande era di passare dal Brenna, subito oltre, dove la signorina Lina mi allungava un paio di caramelle fondant alla frutta, oppure una Nougatine Dufour, mentre papà comperava i “Charms” Alemagna e le “Rossana” per la mamma, dal sapore che detestavo. Un altro piccolo paese dei balocchi stava però per arrivare, in quel lato destro della via per me meraviglioso: il negozio di casalinghi dell’Aldo Giussani, prima del Lorenzini abbigliamento, dove c’era la vetrinetta più bella del mondo, quella contenente le macchinine della Corgy Toys, Dinky Toys e della Mercury, da “vedere e non toccare”, ma che una volta al mese, se facevo il bravo, entravano nel mio garage in miniatura, grazie alla generosità del papà che tirava fuori un “millozzo”, come amava chiamare la banconota con il Giuseppe Verdi.

Ma la storia della nostra famiglia e dei negozi di Varese si sposa anche con il lato sinistro di via Vittorio Veneto, dove aveva sede il Credito Varesino, la banca in cui papà lavorò per 40 anni, ma anche il Baratelli orefice, nella cui vetrina vidi la sveglia che ancora ritma le mie giornate, quella della Disney con Biancaneve i Sette Nani che il nonno mi regalò per i 5 anni. Gli orologi riparati dal signor Baratelli, tra l’altro ottimo giocatore di bocce, erano talmente sinonimo di precisione che in famiglia l’Omega di papà non si chiamava più così ma “il Baratelli”.

Vicino all’oreficeria c’era il negozio Caretti, che oltre alle scarpe ortopediche vendeva anche modelli per bambini, le tremende “polacchine” che dovevo portare d’inverno e odiavo con tutte le mie forze.

La via Vittorio Veneto degli anni belli, quelli della Varese con la sua identità di città-salotto -a proposito, in corso Roma c’era il bar Lombardi dove papà prendeva l’aperitivo con i colleghi- non può essere raccontata a fondo se non si parla del Bronzi ciclista, cui è legato uno dei più bei ricordi della mia vita. Un giorno mio padre arrivò a casa dicendo che avrebbe voluto acquistare una bicicletta di seconda mano, «per portare in giro il “pollice piccolo orecchiuto”», come chiamava me quattrenne. Si andò dal Bronzi e papà scelse una Ganna “Impero” del 1939, perfettamente conservata, alla cui canna fece applicare un minuscolo sellino bianco e blu e alle forcelle anteriori due poggiapiedi. Era fatta, la sera stessa partimmo per la Guaralda, per raggiungere un boschetto dove crescevano le fragoline, e al ritorno, visto che imbruniva, papà accese il fanale marchiato Dansi, con la lampadina forse da una candela. Tutto made in Varese, com’era uso a quei tempi, no Cina no Bezos, e naturalmente le scarpe paterne erano del nostro Calzaturificio, acquistate nel lussuoso negozio di corso Roma e destinate a durare anni.

Il “biciclettone”, capolavoro meccanico del Luisun Ganna con i freni interni e i cerchioni in alluminio, è ancora con me, restaurato e funzionante, con il suo fanale Dansi e tutto, ogni tanto lo tiro fuori dal garage e ci faccio un giretto, magari in Guaralda, anche se il boschetto delle fragoline è sparito da tempo, vittima delle villette a schiera. È tardi per portare sulla canna una bella ragazza o tantomeno un bambino, lo sono già io, mai cresciuto del tutto e attaccato come una cozza ai ricordi di una meravigliosa infanzia che nei pensieri pare non andarsene mai.

Mario Chiodetti

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