Chicco Prato, ottant’anni portati con il sorriso di sempre, ha festeggiato il suo compleanno. Un pranzo tra amici e famiglia, che si è trasformato presto in una piccola magia fatta di ricordi, battute, abbracci e silenzi pieni di gratitudine.
A sorpresa sono arrivati Vito de Lorentiis ed Ernestino Ramella, compagni di tante avventure in biancorosso, insieme a Mario Grotto, l’allora dirigente che di quei ragazzi conosceva ogni sogno e ogni sfuriata. Quando si sono visti, è bastato un attimo: le rughe si sono sciolte nei sorrisi, e la stanza si è riempita di quell’energia che solo le storie vere sanno restituire.
«Chicco Prato lo portai a Varese quando venni a sapere che per lui giocare a Monza era diventato un problema perché avanzava poco tempo per aiutare il padre, rottamatore a Creva, nel Luinese - racconta Mario Grotto - Così decisi strategia e contatto diretto con il padre, inventandomi la necessità di dover fare uno scavo sul suo terreno, dando per scontata la risposta negativa. Ai quei tempi lavoravo alla Stipel. Allo scontato no buttai lì che il mio secondo lavoro era nel calcio, al Varese. Papà Leo a quel punto sgranò gli occhi dicendomi che il figlio, terminata la trafila nelle giovanili del Milan, giocava a Monza ma che la distanza stava creando qualche problema. Proposi uno scambio: io porto suo figlio al Varese e lei ma fa fare lo scavo (che naturalmente non feci perché nessuno me lo aveva chiesto)».
Si è parlato di partite epiche, di trasferte infinite e “pericolose”, di spogliatoi pieni di insegnamenti e rispetto.
Si è riso ricordando qualche impresa più o meno raccontabile, dentro e fuori dal campo, e ci si è commossi nel nominare chi non c’è più, ma continua a sedersi idealmente a quel tavolo, tra un bicchiere di vino e una carezza di memoria.
Erano gli ultimi anni di vita del Cumenda Giovanni Borghi, la città viveva di calcio e di basket ma il tempo dei sogni stava finendo. «Era un’altra epoca - ha detto Chicco, con gli occhi lucidi - ma che squadra, che gruppo, che uomini. Borghi ci faceva sentire parte di qualcosa di grande. Quando andai da lui per discutere il contratto risposi che la cifra era minore di quella che mi serviva per comprare un camion nuovo al mio papà. “Va bene - mi rispose in dialetto - compra il camion per il tuo papà, ma poi me lo porti perché voglio vedere se ne capisci di mezzi”. Altri tempi, altre persone. Eravamo ricchi di passione e amicizia. Quanta nostalgia».






