È il 12 settembre 1951, quando in via Garibaldi a Biumo un signore con gli occhiali da sole firma autografi seduto sul divanetto del negozio di Carlo Figini, che alla cassa sembra disinteressarsi dell’evento, nonostante l’uomo con camicia candida a mezza manica sia un certo Fausto Coppi. Un cliente di lusso “Fostò”, che quando capitava a Varese non mancava di visitare il sciur Carlo e l’Augusto Zanzi “Stravaca”, gregario Bianchi e ciclista provetto.
Enrico Cellerino ci mostra la vecchia fotografia virata seppia che testimonia la visita del “Campionissimo” in uno dei negozi più amati dai varesini, “il Figini”, da sempre garanzia di alta qualità e professionalità ineccepibile, scarpe che durano e un’attività che data 1899. Cellerino è figlio di Angela Figini, che ha 89 anni e dal 2014 gli ha lasciato il timone del negozio di via Morosini 19, gestito fino ad allora con le sorelle Enrica e Francesca, tutte figlie di Renato, primogenito del fondatore Carlo, nato a San Vittore Olona, che fu apprendista a Milano al calzaturificio Polli.
Una dinastia ramificata, con gli altri figli di Carlo, Emilio, Vittorino e Mario, che aiutano il padre nel primo negozio di Biumo, con Mario, appassionato colombofilo, che ne apre uno a Busto Arsizio, e un altro Figini, Roberto, fondatore del calzaturificio Finest di via Brunico a Varese, chiuso qualche anno prima della pandemia.
«La ragione sociale di questo negozio, fino al 2014, era “Figini Renato di Figini Angela, Enrica e Francesca”, poi mamma e zie hanno lasciato per ragioni di età e sono subentrato io, che prima mi occupavo degli acquisti, con mia moglie Roberta Ducato e mia figlia Giulia. Roberta in realtà disegna occhiali e non lavora in negozio, come del resto Giulia, che vive a Barcellona, però mi aiutano nelle scelte delle collezioni. In negozio con me ci sono due assistenti, entrambe si chiamano Maria Grazia», spiega Enrico Cellerino.
«Nel 2014 abbiamo incominciato con una grande svendita, cosa vista solamente quando chiuse la sede di Biumo, occorreva rinnovare il magazzino seguendo le nuove tendenze. Allora abbiamo scritto un documento di intenti, ancora appeso in negozio, che è tuttora il nostro credo».
Il manifesto spiega ciò che in realtà il cliente trova da Figini, “nessun compromesso sulle materie prime, la qualità delle aziende che le producono e come, fatte di persone e di scelte”, attenzione su ogni prodotto, individuato tra i migliori artigiani italiani, e un lavoro accurato su materiali, forme e colori. Il marchio Figini conta ancora il grande negozio di piazza XX Settembre a Varese, e quello di via Spadari a Milano, aperto nel 1959, un anno dopo la boutique di piazza San Babila 2, poi chiusa. Un’altra vecchia fotografia mostra la signora Angela allora commessa nel negozio di via Garibaldi, aperto nel 1928, di un ordine impeccabile, assieme alle colleghe e con alle spalle il padre Renato. Carlo Figini e i suoi figli, nei primi anni di attività, salivano ogni domenica il Viale delle Cappelle del Sacro Monte per vendere ai pellegrini che scendevano a piedi comode ciabatte per riposare le estremità.
«E poi c’è questa immagine, con la dedica del pugile Mario D’Agata, campione del mondo dei pesi gallo, che scrive: “Con grande meravigliosamente scarpa Figini”, un po’ sgrammaticato ma efficace», aggiunge Cellerino.
Il negozio di via Morosini, di grande sobrietà ed eleganza, conta su scarpe di artigiani di Toscana, Veneto e Campania, «noi scegliamo i modelli e i pellami e loro confezionano il prodotto, a nostro marchio. Stiamo già lavorando per la collezione estate 2026 e a fine agosto avremo in casa le scarpe per il prossimo autunno-inverno. Dal 2014 abbiamo scelto di tenere in negozio anche capi di abbigliamento coordinati con le scarpe, ma anche accessori e borse, cosa che ci distingue dagli altri negozi Figini».
Nel corso degli anni anche la tipologia delle scarpe è molto cambiata: «Oggi la fanno da padrone le sneakers, in fondo scarpe da ginnastica, che si portano ormai anche per andare al lavoro, mentre un tempo serviva il modello elegante di cuoio. Devo dire però che la scarpa di classe, fatta a mano, è ancora molto richiesta, soprattutto da professionisti come notai e avvocati che la abbinano ai loro completi eleganti. Anche le donne amano le sneakers, magari non quelle super sportive. Il tacco alto vede poche sostenitrici, un po’ perché non è facile portarlo, un po’ perché richiede un abbigliamento più impegnativo. Lo chiedono soprattutto le donne di mezza età o le giovanissime che vogliono buttarsi o magari sposarsi con tacchi vertiginosi. In casa, comunque, li teniamo fino alla misura 12. Siamo tra i pochi poi ad avere anche i modelli per bambini e ragazzi, con misure dalla 18 alla 38, un settore complicato perché segue i marchi alla moda e richiede un vasto magazzino», racconta il titolare del negozio di via Morosini.
«Per ragioni etiche non teniamo marchi come Nike o Adidas, ma per esempio l’americana Skechers, o la danese Ecco, case che producono in Cina però con propri stabilimenti e filiera controllata, senza pericolo di sfruttamento dei lavoratori. Il mercato della calzatura è complesso, occorre vigilare, arrivano scarpe prodotte in India o nel Bangladesh poi importate in Spagna e vendute come se fossero state fatte lì. Il cliente deve sapere da dove arriva la merce. Il 70 per cento delle scarpe che abbiamo in negozio sono “made in Italy”, fatte da artigiani di alta scuola, come Guido Botti, Sturlini, Green George, Maretto di Riva del Brenta che produce mocassini intrecciati a mano per donna, e L’Artigiana Viareggina, il cui titolare Gori lavora ancora in azienda a 92 anni. Ho clienti che le chiedono espressamente da anni».
Figini, attività storica certificata dalla Regione Lombardia nel 2019, conta anche sulle splendide borse firmate da Marco Campomaggi, «che durano una vita», fatte a mano con il “crest”, il cuoio naturale, messo in botte e «tinto in capo» con tannini tratti da castagno e quercia, una concia al naturale che dà colori straordinari. Nonostante l’e-commerce, la scarpa di qualità tiene ancora, ma Enrico Cellerino rimpiange la Varese di un tempo, quella dei negozi unici, con una precisa identità.
«È cambiato tutto, c’è molta sciatteria e maleducazione, poco rispetto per le regole che sembra valgano soltanto per alcuni. Ho subito atti vandalici, per due volte mi hanno frantumato la vetrina e ogni mattina io e le mie collaboratrici spazziamo il marciapiede davanti al negozio, ripulendolo da ogni sorta di rifiuto. Varese ha perduto la signorilità che la caratterizzava, i negozi sono uguali dappertutto e non portano soldi alla città, che è senza carattere. Per tenere i clienti più affezionati e importanti, come alcuni signori svizzeri che vengono da me da anni, offro loro il parcheggio riservato che ho sul retro, la cura per chi ci regala fiducia è il primo nostro dovere. Per fortuna, da noi arrivano ancora parecchie donne durante la settimana, e uomini soprattutto il sabato, ma anche madri che dicono alle figlie: “Qui mi portava mia nonna quando ero bambina”. Del resto ci siamo da 126 anni!».

















