Sapete come facevano una volta i marinai in mezzo al mare per capire che tempo avrebbe fatto il giorno dopo? Facile: guardavano le nuvole. Cirri, Cumuli, Strati, assenza delle stesse: ogni tipo un senso, ogni tipo un segnale.
Quanti segnali oggi, nel mare di Masnago, a farci comprendere ben prima del quarantesimo che stavolta il vento di Varese avrebbe soffiato molto più forte di quello di Pesaro…
Non è stata una gara scontata quella del Lino Oldrini (anzi tirata e spettacolare), ma la Openjobmetis non avrebbe perso nemmeno se avesse giocato dieci volte.
È bastato guardare il volto di Markel Brown prima della palla a due per capirlo. E il fascio di nervi che lo ha animato fin dalla prima azione, in un primo quarto da assatanato, aggredito con fauci cestistiche spalancate e bava colante, quasi a sfogare una vecchia frustrazione incanalata in rabbia agonistica positiva. Penetrazioni, triple, corse a perdifiato, persino qualche errore di troppa generosità.
Markel è stato il volto copertina di un gruppo che - evidentemente - durante questa settimana si è parlato e tanto. Perché no, Pesaro non poteva essere un’avversaria come un’altra. In gioco, stasera, c’erano più di due punti: c’era l’ultimo treno per vincere un tabù, per sconfessare il passato e le sue prime sentenze, per accedere a un mondo finora sconosciuto, quello delle “grandi”. C’era la vendetta, c’era in palio persino il modo in cui i biancorossi avrebbe potuto guardare il futuro.
Markel lo sapeva, tutti lo sapevano.
E questa è poesia, perché significa che Varese ha un’anima.
Ed è bastato guardare le prime tre reazioni difensive ai post basso di Pesaro per capirlo. Palla a Cheatham (che non è il “greco” e nemmeno Daye, ma neanche l’ultimo arrivato…) e stavolta è arrivata una risposta, stavolta è arrivato anche l’aiuto del centro, stavolta la Vuelle non ha segnato.
Tre difese, tre di numero, nel primo quarto: da lì in poi Pesaro in post basso ci è tornata forse due volte nei successivi trentacinque minuti.
Respinti con perdite disarmando l’arma più pericolosa, guarendo la ferita che bruciava di più. Anche questa è poesia, perché significa che Varese può imparare.
Ed è bastato guardare l’interpretazione da Oscar di Jasmin Repesa, il miglior allenatore della Serie A nel tentare di lavorarsi le terne arbitrali. Oggi il croato ha iniziato subito a "lavorare", oggi il croato si è superato: una pressione costante sulla linea laterale, quasi un placcaggio di chi tra i fischietti gli passava vicino, un’azione dopo l’altra, un fischio dopo l’altro.
Sì, anche lì abbiamo capito che oggi si sarebbe vinto, perché quella pressione, quel nervosismo, quella - scriviamolo pure - esperienza di anni messa sul campo nel provare a tirare la terna dalla propria parte, come il più scafato tra i marinai, ha tradito in realtà ben altro: la Vuelle aveva una fottuta paura di perdere.
E ha perso.
E anche questa è poesia, perché significa che chi ferisce Varese si preoccupa quando scopre di non averla ammazzata. Perché teme la sua vendetta.
Il resto delle strofe? Ci mettiamo i 24 punti in 24 minuti di Tariq Owens: una prestazione così, nel giorno in cui Brown trotta per la giungla come un leone famelico e Ross scrive il record di assist, beh… ci ricorda ancora una volta - come se fosse la pena eterna di un girone dantesco - quanto ci siamo sbagliati a giudicarlo troppo in fretta a inizio stagione. Ora è un totem, ora è una certezza, ora è la ciliegina sulla torta.
Su Varese nemmeno una nuvola.