Varese - 19 gennaio 2023, 14:49

Fassa il "visionario": «Varese non è più un salotto e non sarà una capitale turistica. Io la vedo come Davos, perfetta città congressuale»

Chiacchierata in libertà con il varesino Raimondo Fassa dal suo buen retiro di Tunisi: «Saremmo un perfetto centro di turismo congressuale, con sedi in un ristrutturato Castello di Belforte, all’ex Aermacchi o nel Grand Hotel. Al Sacro Monte bisogna fare arrivare la gente con bus elettrici chiudendo alle auto. Questa giunta qualche tentativo in termini progettuali lo sta facendo, ma la città paga l’immobilismo dei dieci anni di quella precedente»

Fassa il "visionario": «Varese non è più un salotto e non sarà una capitale turistica. Io la vedo come Davos, perfetta città congressuale»

Oggi a Tunisi ci sono 18 gradi e Raimondo Fassa, al telefono su Whatsapp, racconta il suo buen retiro nella medina, dove abita nella casa che fu del presidente Burghiba e appartiene alla sorella del celebre produttore cinematografico Tarak Ben Ammar, patron della Carthago Film. Sta lì da sette anni ed è lettore di Lingua e cultura italiana all’Istituto Italiano di Cultura della capitale, ennesima camaleontica trasformazione di un intellettuale che è stato insegnante, avvocato, militante politico, assessore alla Cultura a Gallarate, sindaco di Varese ed europarlamentare, non venendo mai meno al suo aplomb e alla capacità affabulatoria.

Ci conosciamo da quando Raimondo, classe 1959, sindaco frequentava il laboratorio di scultura di Giorgio Presta, allora in via Garibaldi, dove lo immortalai con le mani sporche di creta nel tentativo di dar corpo a un vaso. Ai tempi lavoravo alla “Cronaca”, scommessa di dare alla città un altro quotidiano con fatti soltanto varesini, e il sindaco era in prima pagine ogni due per tre. Con Fassa non ci vediamo da anni, ma con i social si è sempre in contatto e lui segue ogni cosa riguardi Varese, perché il filo non si è mai spezzato.

«Non voglio però che si dica: ecco Fassa che vuole tornare a fare il politico e pontifica su Varese a chilometri di distanza», è l’esordio un po’ avvocatesco, «mi sono scrollato di dosso i panni del “sindaco emerito”, in fondo l’ho fatto solo per cinque anni in 40 di vita professionale, sono stato leghista e non lo rinnego, se parlo della mia città è perché a Bosto ho ancora la casa di mia mamma, scomparsa nel 2020, e appena posso ci torno. Vorrei sistemarci i miei 15mila libri e i quadri che amo e magari trascorrervi la vita da pensionato».

Il cronista incalza, vuole sapere cosa ne pensa Raimondo della Varese attuale da cittadino e non da politico, ex sindaco, parlamentare eccetera e se ha idee per un suo possibile futuro, una resurrezione culturale, ambientale e progettuale.

Il primo cittadino del post Tangentopoli mette la marcia e parte: «Il mondo sta cambiando troppo velocemente, quando vengo a Varese vedo un costante mutamento. Hanno chiuso quasi tutti i vecchi negozi, perfino Zamberletti, la città ha perso quell’aura di salotto che l’ha sempre caratterizzata. Lo stesso è accaduto a Gallarate e a Busto, i centri storici sono meno vivi, c’è poca gente in giro. Io non ho mai creduto in una vocazione turistica di Varese, al massimo può essere un luogo di loisir, per trascorrere del tempo libero visitando i Giardini Estensi o una mostra d’arte, mangiando in un buon ristorante, facendo un poco di shopping, salendo al Sacro Monte».

E qui Fassa rammenta alcuni tòpoi a noi cari, la straordinaria Varese Belle époque, con i tram, le funicolari, il teatro, le ville e i giardini di delizia. «Perché non tentare di ridare alla città un poco di quello smalto? Ai miei tempi a Palazzo Estense, ne parlavo spesso con il mio vice sindaco Piergianni Biancheri, ma anche con l’architetto Ettore Mocchetti e Gottardo Ortelli. Varese era un salotto, giusto quindi affidare a un architetto d’interni come Mocchetti l’arredo urbano. Devo dire che quell’idea è stata perseguita anche dopo di noi, oggi il centro storico di Varese è più elegante di quando iniziai il mio mandato».

L’appetito vien mangiando e faccio a Raimondo la fatidica domanda: quale può essere il destino di Varese?
Quello di una città dove è bello stare e passarci un fine settimana, non certo una capitale turistica. Una città dall’allure Belle époque ma con tutta la tecnologia di cui oggi disponiamo. Io la vedrei come un perfetto centro di turismo congressuale, con sedi in un ristrutturato Castello di Belforte, all’ex Aermacchi-Cagiva o nel Grand Hotel del Campo dei Fiori. Luoghi un poco via dalla pazza folla, alla Davos, per intenderci.

Ecco, l’ha detto. Adesso non può tirarsi indietro.
Il trambus varato durante il mio mandato di sindaco, era una metropolitana leggera per incentivare, con corse numerose, l’uso del mezzo pubblico a discapito dell’automobile. Vedrei anche oggi una linea Bizzozero-Masnago, un asse di trasporto virtuoso. Un giorno Alfredo Ambrosetti mi disse che Varese sarebbe stata una perfetta città congressuale, a patto di dotarla di negozi e ristoranti di lusso. Questo perché le mogli dei congressisti amano fare shopping, lasciando le chiacchiere ai mariti, e non si può immaginare la signora Draghi entrare da Zara a comperarsi un golfino. La città, insomma, deve essere pronta all’accoglienza nel suo complesso.

E la cittadella liberty di Campo dei Fiori?
Oggi c’è fame di spazi verdi, noi ne abbiamo, e il complesso Sacro Monte Campo dei Fiori è una ricchezza non solo per la nostra ma anche per la provincia di Milano. Ci vuole coraggio a chiudere al traffico in alcuni periodi dell’anno la strada per il Sacro Monte e farci arrivare la gente con bus elettrici fino alla Prima Cappella che partano dallo stadio. Ma prima di portare i visitatori in cima con la funicolare, occorre animare il Sacro Monte con continue iniziative culturali.

Giusto, parliamo un po’ di cultura, parola che da sempre imbarazza i varesini, accusati di essere sempre più vicini al cassetto con i soldi che a un libro, un quadro o un concerto.
A Tunisi, città di 3 milioni di abitanti, con un reddito pro capite e assoluto certamente molto più basso di quello di Varese, la cultura è vivissima. Ogni anno nella medina dove vivo, la più bella del mondo perché rimasta intatta e ancora ricca di botteghe artigiane, si organizza “Dream City”, un festival culturale con artisti che creano installazioni luminose in ogni angolo. Si aprono monumenti di solito chiusi alle visite, si proiettano film. Perché non fare una cosa simile anche a Varese? Questa giunta qualche tentativo in termini progettuali lo sta facendo, ma la città paga l’immobilismo dei dieci anni di quella precedente, che ha preferito conservare piuttosto che rinnovare. Attilio Fontana è un galantuomo che stimo da sempre, però non ha mostrato la volontà di andare oltre l’esistente. Lui è forse il miglior interprete del genius loci. Paradossalmente, la gestione Fumagalli fu più propositiva.

E sulla vexata quaestio del teatro cosa ci dici?
Attenzione. Quando ero assessore alla Cultura di Gallarate assistetti al tracollo della faraonica gestione del teatro Condominio, che partì con 100 serate in un anno ma con scarso pubblico. Andò in perdita nonostante la fondazione che lo gestiva fosse finanziata annualmente dal comune con 500mila euro. Il problema è la sostenibilità: se hai un teatro da 400 posti reali e inviti Massimo Ranieri o i Legnanesi, fai sold out, appiani i costi ma non guadagni. Devi avere mille posti per poter incominciare a trarne utili. A Varese ci potrebbe stare un teatro da mille posti? Sarebbe giusto far pagare a 80mila varesini una stagione goduta da un migliaio di persone? Occorre prima fondare un centro culturale che educhi il pubblico alla prosa, all’opera lirica, al concerto sinfonico, poi pensare a un teatro conforme alla richiesta. Il pubblico va creato ed educato prima di stanziare grosse somme per fare il botto con il nome di cartello e poi perderci. A Gallarate funziona benissimo il piccolo Teatro delle Arti, dove le compagnie importanti testano i loro spettacoli prima delle grandi piazze, proprio perché i suoi gestori hanno saputo educare il pubblico negli anni.

Parliamo da più di un’ora, e Raimondo Fassa alla fine vuole spiegare il carattere delle sue scelte di vita. «Ci tengo a dire che dalla politica si può uscire, per me è stata soltanto una parte del percorso esistenziale, durata 15 anni. Il politico può tornare alla sua professione, nel mio caso quella di insegnante, come del resto fece Henry Kissinger, ai suoi tempi forse più potente dello stesso presidente degli Stati Uniti ma poi ritornato all’insegnamento universitario. La politica come mestiere è un fenomeno tipicamente italiano, così ci entrano quelli senza un mestiere, facilmente ricattabili in cambio della pagnotta. Io ho sempre potuto vivere del mio lavoro anche dopo la parentesi politica».

Si è fatto tardi e Raimondo, che oltre al perfetto francese ha imparato un po’ di arabo e presto cambierà casa a Tunisi trasferendosi in una dimora in stile arabo francese, mi promette una visita da qui a non molto. «Voglio vedere i tuoi libri e le tue raccolte, verrò a Varese per qualche giorno». Ma sia ben chiaro, l’ex “sindaco emerito” non ha alcuna intenzione di rientrare in politica.

 

Mario Chiodetti

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