Museo Maga, domenica mattina. Sala degli arazzi. Fra buio e colori affascinanti ci sono i finalisti del premio Chiara 2022. Modera Robertino Ghiringhelli, docente alla Cattolica. Ci sono Antonio Pascale, Michele Mari, Alesssandra Sarchi. Introducono l’assessore alle Attività formative, Claudia Mazzetti, e l’anima del Premio, Bambi Lazzati. Poi, parola agli autori (nel solco di Duemilalibri, le giornate gallaratesi di incontro fra scrittori e lettori). Bambi Lazzati: «Ieri eravamo a Lugano, per la presentazione del lavoro svolto dai finalisti. I volumi arrivati quest’anno sono stati oltre 50. La terna selezionata è stata “data in pasto” a 150 giurati, tanti del territorio. Oggi pomeriggio si apriranno davanti a un notaio le schede di voto».
Michele Mari, “Le maestose rovine di Sferopoli”, 25 racconti: «Non so bene cosa sia Sferopoli: è nata di getto, d’istinto, volevo un nome che si confondesse con la geologia, con la natura e il manufatto umano. Che lavorasse con la dimensione dell’incubo, del desiderio, della letterarietà. Parliamo di rovine consunte, quasi illeggibili, c’è un’analogia con le origini della nostra tradizione artistica, in particolare con la lingua letteraria italiana. Un sentimento di omaggio e gratitudine. Il racconto è qualcosa di monodico e concentrato. Deve inibire le spinte centrifughe. Il racconto è una specie di tic. Deve essere fulminante».
Alessandra Sarchi, “Via da qui”, cinque racconti: «Il qui è quasi un’indicazione affettiva, via dal qui presuppone che il luogo, il qui, risulti esaurito, esausto, oppure che si stia pensando a un altrove. I racconti disegnano una geometria di fuga, ma non c’è solo la realtà dei luoghi affrontati, c’è anche una visione interiore. Esistono relazioni profonde tra noi e i luoghi, siamo porosi. Occorre, per me, inseguire questa porosità, questo scambio. Siamo esseri relazionali. Si affrontano piccole e grandi rotture, piccole e grandi disgrazie. Il racconto è un’istantanea di un momento che si coglie, si può ammirare il prima e il dopo ma deve fare sentire la durata, l’intensità. È verticale». Verticalità uguale profondità.
Antonio Pascale, “La foglia di fico”, dieci racconti, dopo parole di ammirazione per gli altri due finalisti, sorrisi e pacche sulle spalle: «Il mio libro parla di piante, di donne e di uomini, è un ricettacolo di simboli che raccontano chi siamo, a partire dalla foglia di fico, mito di fondazione. Da allora combattiamo. L’unica natura su cui vale la pena discutere è la mortalità. Che ci rende empatici, questa ferita deve farci abbracciare l’uno con l’altro. Il grano, tanto importante nel mio libro? È simbolo della storia umana, fra Pinocchio (grande racconto della fame) e Masterhcef. In realtà, parliamo di diecimila anni, in cui è cambiato tutto, per esempio su aspettativa di vita e mortalità infantile. Le piante erano lì. E il grano è uno spartiacque».




