Cronaca - 05 aprile 2024, 07:33

Siamo ritornati all'Isolino Virginia, tra le panchine a mollo e il canneto che quasi non c'è più (FOTO)

Un mese dopo il nostro primo viaggio abbiamo fatto nuovamente tappa al bene Unesco. La tempesta di Pasqua ha lasciato il segno, invadendo il pontile. Ma dei lavori di sistemazione dell'area per la riapertura del prossimo giugno ancora nessuna traccia... Chiacchierando all’ombra del gigantesco cipresso calvo, viene fuori che Mauro Zanetti, un appassionato studioso della storia della Cooperativa pescatori, sta stilando un elenco degli antichi toponimi delle diverse località del lago

L'Isolino invaso dalle acque del lago e abbandonato a sé stesso: forse è meglio così, la natura se lo riprende a poco a poco, l’uomo in fondo è solo un impiccio (foto Mario Chiodetti)

L'Isolino invaso dalle acque del lago e abbandonato a sé stesso: forse è meglio così, la natura se lo riprende a poco a poco, l’uomo in fondo è solo un impiccio (foto Mario Chiodetti)

Sono tornato. Un mese dopo la prima uscita, riprendo il barchét, e da Cazzago punto la prua verso l’Isola Virginia, lasciando finalmente alle spalle il diluvio di Pasqua, in un pomeriggio pieno di sole e di aria fine, di un cielo turchese in cui galleggiano nuvole paffute che sembrano appese con un filo all’infinito. 

Il lago è salito di 72 centimetri oltre lo zero idrometrico, è uscito alla Schiranna, alla “Strencia” di Biandronno, a Cazzago, e a Gavirate, dove la “bergamasca”, l’aria di tempesta coda della bora triestina che arriva da est, ha fatto a pezzi la passerella di legno del lungolago. I pescatori la conoscono bene, in un amen ha distrutto il canneto rivierasco a Bardello e in molti altri punti verso Gavirate, ammassando le cannucce a riva e intasando la chiusa del fiume Bardello. 

Ma oggi le acque sono lisce, quasi patinate, mi aspetta una lunga remata, gli occhi sono catturati dalla bellezza del paesaggio e dai colori tenui della primavera bambina, con i saliconi e gli ontani a fare da macchia verdina all’ocra dei canneti, alle foci del canale Brabbia. 

Il vento di burrasca ha sollevato la morchia del fondale, e tra Cazzago e l’isola la superficie del lago è punteggiata di resti vegetali, mentre verso Biandronno l’acqua è verde smeraldo per la presenza di microalghe. Il “troppo pieno” causa anche il versamento di liquami dalla “rungia gatto”, il canale artificiale posto sotto la chiesa di Biandronno e voluto dall’ingegner Quaglia per raccordare il laghetto di Biandronno con il lago di Varese. Lago pulito? Mah.

Mentre mi accingo ad approdare in quella che nel 1500 era l’isola di San Biagio, osservo i campanili dei paesi, Bardello, Biandronno, Cazzago Brabbia, i segnali che i pescatori avevano per orientarsi, la chiostra delle montagne della Val Grande ricoperte di neve, il Rosa che occhieggia dal cappello di nuvole, e penso alla fortuna che ho di poter godere di tanta bellezza gratuita, unica barca sul lago con questo paradiso tutto per me. 

L’Isola Virginia è invasa dall’acqua, le panchine sono a mollo, il pontile sommerso, del vecchio attracco non si scorgono nemmeno i gradini, sparito anche il nastro bianco e rosso che gli addetti comunali avevano sistemato per delimitare l’area pericolante. Non c’è traccia di lavori in corso, dietro l’edificio del museo archeologico c’è una lunga fila di detriti di muratura, sassi, mattoni e tegole, rami rotti ovunque, incuria totale. Mancano solo due mesi alla data del 1° giugno, ventilata come possibile apertura dai vincitori del bando di gestione del ristorante, ma il bene dell’Unesco rimane ancora abbandonato a sé stesso, e forse è meglio così, la natura se lo riprende a poco a poco, l’uomo in fondo è solo un impiccio.  

Mentre esploro la punta dell’isola, dove una decina di giorni fa è avvenuta la “frega” dei carassi, con l’acqua che pareva d’argento per la quantità di pesci arrivati a riva, attracca la barca di Gianfranco Zanetti, uno degli ultimi pescatori rimasti, assieme a Ernesto e Luigi “Negus” Giorgetti di Cazzago. Con lui c’è il fratello Mauro, l’uno e l’altro sono enciclopedie parlanti del lago e delle sue storie. 

«Il canneto sta sparendo», dice Mauro, perito meccanico con la passione per l’epopea della Cooperativa pescatori, «un tempo a Bardello usciva per 200 metri dalla riva, adesso è arretrato quasi del tutto, poi la “bergamasca” dei giorni scorsi gli ha dato il colpo di grazia».

Chiacchierando all’ombra del gigantesco cipresso calvo dell’Isolino, viene fuori che Zanetti sta stilando da tempo un elenco degli antichi toponimi delle diverse località del lago, un lavoro iniziato tempo fa da Amerigo Giorgetti di Cazzago Brabbia.

«Nella raccolta mi hanno dato una mano i vecchi pescatori, Carlin dul Pizz, Mosé Bossi, Natale Giorgetti, Tarcisio Maroni di Calcinate del Pesce e soprattutto il povero Daniele Bossi, che conosceva una quantità di toponimi dialettali tra Cazzago e Bodio. Finora ne ho catalogati 131, ma ne ho ancora una dozzina da posizionare, in pratica esiste un toponimo ogni 200 metri di riva».

I nomi hanno un profumo d’altri tempi: ecco il “valtelin”, perché a Gavirate una volta c’era un valtellinese che possedeva una cava di sabbia, poi “o savonatt” perché a Bardello in quella località insisteva una fabbrica di sapone. A Biandronno c’è la “strencia”, l’“isola bella” un isolotto microscopico con un ciuffo di canne tra il paese e l’Isolino Virginia, e poi il “Tesinell”, il Ticinello, il piccolo canale che divide l’isolino dalla terraferma.

«Questi toponimi li conoscevano in pochissimi, in pratica quasi soltanto i pescatori, che si parlavano con un loro linguaggio, e mi piacerebbe ampliare il dizionario della pesca che Luigi Stadera aveva pubblicato tempo fa. Per esempio, i pescatori non misurano le distanze in metri, ma usano l’unità di misura delle braccia aperte, dette “spazza”», prosegue Mauro Zanetti, che in passato aveva contribuito a fondare, con Salvatore Furia e i ragazzi del Centro geofisico prealpino, l’Alan, l’Associazione lombarda azione naturalistica, con la quale impedirono negli anni ’70 una gara di motonautica sul lago di Varese. 

Una cultura che rischia di scomparire per sempre, ormai soltanto nella memoria degli anziani e di chi, come Zanetti, da anni si batte per il suo riconoscimento, cercando di mettere sulla carta luoghi, modi di dire e abitudini che appartengono al nostro vissuto. 

Si torna, il barchét punta verso Cazzago, e la mente va al libro “Il lago perduto” che pubblicai ormai quasi vent’anni fa, con le interviste agli ultimi pescatori e le fotografie, ormai pezzi di storia, scattate a loro anche di notte al levar delle reti e alla vecchia e scomparsa sede della Cooperativa dei pescatori a Calcinate. Dei nove pescatori professionisti di allora ne sono rimasti tre, il più giovane Gianfranco Zanetti, sulla via degli ottanta, il Negus e l’Ernesto Giorgetti che quell’età l’hanno superata da un pezzo, ma, indomiti, escono ancora ogni giorno a pescare i fantasmi dei pesci di un tempo, perché quella è sempre stata e sempre sarà la loro vita. 

Mi piace chiudere questo scritto con le parole che Andrea Vitali spese nella prefazione del mio libro, quelle di un “laghée” innamorato delle proprie radici.

«Guardando le fotografie, devo confessare che ho avuto la sensazione di perdere di vista i confini. D’accordo, è il lago di Varese. Ma potrebbe essere quello di Como o il Maggiore, non ci sarebbe differenza, perché i gesti, i visi ingrugniti, le dita nodose sono uguali dappertutto, dove si pesca e dove si pescava. Le bocche, anche. Dalle quali, sarei pronto a scommettere, vi sono giornate durante le quali non escono che pochissime parole, a volte versacci o imprecazioni smozzicate». Il pescatore è questo, un uomo tutt’uno con il suo lago e i suoi silenzi.

Mario Chiodetti

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