Il domani è già qui, anche se ancora non si vede, anche se ancora è nascosto dalla nebbia di ieri e da tutto ciò che essa ha confuso nella sua densità. Quella corda tirata a più non posso fino a spezzarsi. Quel giocatore che invece di fungere da passpartout per la gioia diventa il compasso che allarga le differenze. Quell’ultimatum (LEGGI QUI) non calcolato, o sottovalutato, o forse sdegnosamente e orgogliosamente e intimamente rifiutato. O addirittura “impossibile” da rispettare. Quella “sfida” - tra un coach che è andato avanti dritto per la sua strada e chi gli aveva chiesto di non superare certi limiti - che ha preso il posto della quiete, pur se un po’ artefatta come negli ultimi tempi. Quell’ultima “drammatica” sera, quelle parole considerate irripetibili, quel vaso che si colma.
Il domani è già qui, anche se stasera si è giocato ed è stato quasi un contrattempo. Anzi dai… è stato ancora ieri. Perché Attilio Caja era ovunque qui al PalaDesio, come normale che fosse. Era nelle chiacchiere post-atomiche, sussurrate magari, ma di certo ancora questionanti: quello che è accaduto non può scivolare via in un giorno, come se fosse solo un brutto ricordo. Era qui nella sua stessa assenza, dopo anni in cui lo hai visto sempre al solito posto: passeggiante, concentrato, poi incazzato. Era lui.
Ma Attilio Caja era soprattutto in campo, in quei giocatori che fino a sabato pomeriggio sono stati suoi (forse non tutti…) e nel loro modo di giocare. Era negli schemi che governavano i loro movimenti, era perfino - forse: non siamo nella loro testa - nelle loro mancanze, in quell’intensità che stasera è mancata e ha lasciato campo libero a Cantù. Della terza sconfitta del precampionato (ah già… si chiama Supercoppa…) poco da scrivere in fondo: se il motore non gira a tutta, se difendi saltuariamente, Scola (che oggi non è stato perfetto) non può bastare. Il concetto di sicuro sarebbe stato declamato urbi et orbi et urlandi dall’Artiglio: noi ci limitiamo a sussurrarlo.
Il domani è già qui, anche se ancora ieri non è passato. E il domani si chiama Massimo Bulleri (la scelta della società è lui, ma alle 20 di stasera non era ancora stato liberato da Ravenna). Un esordiente, e questo preoccupa per diversi motivi che non mancheremo di sviscerare a tempo debito, ma un esordiente fortemente voluto, come fortemente voluto era stato quando - arrivato quasi per caso ad arricchire gli allenamenti di Moretti - aveva poi completato il roster biancorosso, rimanendo a Varese per tre anni, prima da atleta, poi da assistente. No, Bulleri non è un ripiego economico: è una scommessa. Come lo sono le scelte di chiunque.
E allora che il domani arrivi davvero, arrivi subito e provi a dare un senso a tutta la pioggia di questi giorni, provi a dare un senso a ieri. Perché il pericolo maggiore è il vuoto.
Di questi giorni turbolenti, di questa fine di un’era che anche stasera è aleggiata tra le mura del mastodontico PalaDesio e di certo pasteggia nell’anima di chi trepida per la Pallacanestro Varese, lasciando dietro la sua scia tristezza, sollievo, inquietudine, rabbia, rivalsa, senso di giustizia o ingiustizia, speranza e chi più ne ha più ne metta a seconda delle singole persone, c’è un’immagine che vogliamo infine sottolineare a dovere. Un fotogramma carico di significato che non può non colpire, far riflettere, far rifiatare, quasi zittire.
È l’immagine di Toto Bulgheroni che domenica mattina si reca al palazzetto e va personalmente a parlare alla squadra al completo (insieme ad Andrea Conti). Guardando tutti negli occhi - giocatori, allenatori, staff - uno a uno. Spiegando i fatti, motivando la sofferta decisione dell’esonero, prendendosi ogni responsabilità della scelta compiuta senza lasciarne nemmeno un grammo libero nell’aria, sprovvisto di padrone. E quando un uomo di 77 anni - che ha dedicato tutta la propria vita e i beni della propria famiglia alla Pallacanestro Varese, vedendone di ogni, sopportandone altrettante, addirittura rinunciando alla quiete propria di chi ha già dimostrato tutto quello che c’era da dimostrare per rimettersi in gioco davanti a una richiesta di aiuto, inguaribile nella sua “passionaccia" - si comporta in questo modo, beh… merita rispetto. Giuste o sbagliate che siano le sue risoluzioni. Un rispetto che deve arrivare anche, se non soprattutto, da chi anelava a un finale diverso, da chi oggi è preoccupato, da chi questa decisione l’avrebbe tardata il più possibile o non l’avrebbe mai presa. Da chi, in fin dei conti, da un ottimo allenatore come Attilio Caja non si sarebbe mai separato, continuando a credere alla bella favola (a noi ci ha appassionato tantissimo) del “contano solo i risultati sul campo”.
Al mondo si sta come il Toto. Anche quando fa male, anzi malissimo.