Serafino era figlio dei temporali d’agosto, si può dire che tuoni e lampi lo partorissero ogni anno, identico a sé stesso, silenzioso e furtivo come un animale del bosco. Piccolo e magro, pallido, pareva un sacrista di campagna, con la giacchetta grigia mal cucita, i pantaloni scuri galleggianti sulle gambette ossute e certe scarpe a punta rotonda che conservavano le tracce dei prati.
“Ul Fino” era un cugino di mio padre, in seconda probabilmente, contadino e poi giardiniere aveva un’asciuttezza nervosa e pochissime parole, quasi sussurrate, come se ogni volta temesse di allarmare la volpe o far alzare qualche fagiano, tra i pochi esseri con cui avesse totale sintonia.
Trascorreva gran parte della vita in campagna e nei boschi, camminava e borbottava, raccoglieva erbe e fiori. Di lui non si sapeva altro, non si era mai fatto una famiglia, in casa era rubricato alla voce “omm selvadigh”, un vecchio scapolo senza vizi che bastava a sé stesso e puntuale come il cambio di stagione (che un tempo era avvertito) suonava il campanello di casa con nel sacchetto di carta umida, per non farli appassire, un mazzetto di ciclamini di bosco regalati poi con galanteria a mia mamma.
«Hin i primm, i hoo catà in dul bosc di castàn, tra Bindronn e Bregan», diceva quasi scusandosi, e non si voleva “accomodare” in tinello, lui così a disagio in una stanza ammobiliata, uno spazio minimo rispetto al castagneto che lo vedeva ospite in ogni mese dell’anno tanto da conoscerne perfino il respiro. «Hò da ciapà la corriera dul Somaré, vò via sübit», e prendeva l’uscio quasi volando, curvandosi un poco in avanti quasi dovesse scoprire un sentiero tra i rovi.
A volte il Fino compariva con un involto più grande che tirava fuori da una borsa di cuoio. Erano piantine di Rosa di Natale, che a suo dire sarebbero “attaccate” facilmente: «fiurissen quand gh’è la nev», e via per le scale, furtivo come una donnola, a inseguire la provvidenziale corriera che l’avrebbe riportato sulla strada per Bregano, al “Cumarin”, dove viveva con la sorella in una casa affacciata al laghetto di Biandronno.
Papà raccontava che il Serafino, ormai anziano, ogni tanto andava ancora ad accomodare i giardini dei signori, era bravissimo nella potatura degli alberi da frutto tanto da essere richiesto anche a Varese, dove arrivava con i suoi attrezzi, la roncola e uno strano paio di forbici, con il metallo dell’impugnatura ricoperto da un rivestimento d’osso ingiallito dal tempo. Una primavera venne anche da noi e assistemmo alla falciatura del prato con la vecchia falce fienaia del nonno, che il Fino aveva affilato con la cote custodita in un corno di bue.
Bambino, lo guardavo affascinato da quei gesti morbidi e ritmati, ma la cosa stupefacente era che dalle labbra di Serafino usciva un suono simile a una litania, sommesso e quasi soffiato, una melopea sospesa e ipnotica senza parole. L’uomo avanzava nel prato quasi danzando, e la falce si muoveva con la precisione della bacchetta del direttore d’orchestra, avanti indietro, destra sinistra, seguendo un tempo musicale che soltanto lui conosceva. Al passaggio della lama i “saltamartini” si sollevavano come gli archi dei Berliner Philharmoniker per poi posarsi di nuovo sull’erba e un profumo di fieno si diffondeva nell’aria, amplificato dal primo tepore del sole.
Un uomo antico, Serafino, che ascoltava la voce della terra, e come un animale del bosco non compiva mai un gesto di troppo, sapeva che la natura non perdona le disattenzioni e quel suo cantare sottovoce era un modo per collegarsi al suono dell’universo e farne parte, in una totale sintonia di corpo e di spirito.
Per molte stagioni il Fino bussò alla porta di casa, una volta erano i ciclamini, un’altra l’elleboro verde, magari il dente di cane o la fegatella, un segno del risveglio del mondo che lui sapeva cogliere prima di ogni altro rendendoci partecipi della sua gioia. In ciò somigliava al poeta Pascarella, un altro “selvatico” solitario che camminava per ore nella campagna romana portando a casa ogni volta una zolla di terra che poi sistemava in un vaso aspettando lo spuntare di una piantina o di un semplice filo d’erba.
Oggi che i giardinieri sono più rumorosi di una banda rock, il piccolo uomo che accarezzava il prato con la falce, quasi temesse di ferirlo, si presenta alla memoria come un alieno, che donava il suo amore alla terra sapendo di esserne ricambiato. Serafino non arrivò più con il morire dell’estate, la sua vita era fuggita altrove, ma in giardino, passato dicembre, la Rosa di Natale ancora ci porta il suo saluto, assieme a quello di mamma, che l’aveva piantata dove lui le aveva suggerito: «A l’umbrìa, sedenon la fa dimà föi».