Nel mondo anglosassone le chiamano “sliding doors”, porte girevoli. Sono quei bivi, quegli attimi, quegli accidenti, quegli incontri che - come un colpo impercettibile di vento - mutano radicalmente e per sempre il destino di alcune esistenze.
Vedi Paolo Ambrosetti al centro del suo negozio e pare Giorgio Albertazzi sul palco di un teatro, Maradona che palleggia in mezzo al campo, Carlo Cracco dietro a una pentola in ghisa: elegante, diretto, affabile, competente. Nato per fare quello.
E allora la mente viaggia da sé, pensa alla Valigeria Ambrosetti - 94 anni quest’anno, sempre lì, sempre in via Mazzini a Varese - come il frutto inestricabile di una dinastia legata con il sangue alla pelle delle borse. Pensa a un disegno immutabile e divino che lega una generazione all’altra, pensa a un destino immanente e lineare che sceglie da solo ogni successore… pensa, pensa, pensa finché l’istinto suggerisce una domanda che manda a carte quarantotto tutto l’inutile pregresso: «Ma tu, Paolo, ti sei sempre immaginato nell’attività di famiglia»?
«Io non avevo alcuna intenzione di lavorare per i miei genitori - è la risposta immediata - Sono qui perché il mio esame di maturità è andato malissimo». Evviva la sincerità: cosa dicevamo del disegno immutabile?
La scena muta e la risoluzione: «Ora mi cerco un lavoro»
Un passo indietro. La prima pelletteria ad avere un e-commerce in tutta Italia (2008) è in realtà antica come la Varese dei tram, dei sampietrini sulle strade e dei calciatori che invece di allenarsi al Franco Ossola andavano alle Bettole. Uno di questi era nonno Giancarlo, terzino di un Varese Calcio non ancora biancorosso, un giovane che dopo aver faticato con il pallone tornava a piedi, scarpe al collo, per andare a faticare davvero dietro a un bancone. Anni 40’ del secolo scorso: con lui Ines, nonna Ines, ma prima di loro l’elenco dei protagonisti comprende anche un bisnonno e una bisnonna, i veri fondatori della pelletteria.
Il Varese Calcio non ha peraltro finito di dettare brani della vicenda. Paolo, infatti, una volta che il negozio è passato nelle mani di papà Lorenzo e mamma Maria, ovvero alla terza generazione Ambrosetti, l’odore del cuoio lo ha probabilmente respirato già nel passeggino, ma il suo primo ricordo lo fissa intorno ai 10-12 anni: «Amavo venire qui, ma per una sola ragione: sopra il negozio c’era un appartamento (che oggi è diventata la mia casa) dove erano sistemati alcuni giocatori del Varese di Fascetti… Tra gli altri mi ricordo di Gatti e di Rampulla… All’epoca i ritiri non erano frequenti e loro trascorrevano i sabato pomeriggio tirando palline di carta di giornale imbevuta d’acqua ai passanti. Io guardavo quelle burle e mi divertivo».
Bello eh, ma è una calamita che non può durare per sempre: Paolo si iscrive a Geometri, si dedica nel frattempo anche lui al calcio (è portiere nelle giovanili biancorosse) e il lavoro di mamma e papà diventa sempre più collaterale, lontano, evitabile: «A scuola andavo anche bene… Poi arriva la maturità e dopo gli scritti mi cambiano completamente tutte le materie dell’orale, durante il quale faccio praticamente scena muta. Risultato? 40/60, un disastro».
La sentite la ruota che inizia a girare? Il primo colpo da maestro del destino è pronto ad arrivare, il secondo giungerà subito dopo. Dopo il fallimentare esame, infatti, il nostro non passa nemmeno da casa, ma va direttamente in negozio e annuncia urbis et orbi: «Vado a Milano a cercarmi un lavoro…». Così fa: prende il treno e finisce in via Durini, all’Invicta, dove cercano personale e dove viene preso praticamente subito.
Dagli zaini, alle borse, al futuro
Invicta, ovvero zaini. Zaini tra mille possibili categorie merceologiche. Per uno che «non avevo alcuna intenzione di lavorare per i miei genitori» il ritorno verso “casa” è appena iniziato, anche se lui ancora non lo sa.
«Sono rimasto lì dieci anni ed è stata una scuola di vita: mi fecero frequentare anche corsi da vetrinista e di tecniche di vendita. Molto di ciò che appreso in quella esperienza l’ho portato qui in Valigeria, soprattuto la meticolosità nell’esporre la merce: non deve mai essere coperta, niente cartellini, il prodotto deve apparire nello stesso modo in cui viene poi indossato dal cliente».
Altro zampino del fato: dopo Milano c’è il ritorno a Varese. «Nello sviluppo del franchising l’Invicta decise di aprire anche da noi e lo propose ai miei genitori: il negozio, che era proprio qui di fronte, fui io a gestirlo. Qualche anno dopo fu necessario un locale più grande perché la gamma si allargò: altro spostamento, altri anni trascorsi finché l’immobiliare proprietaria delle mura decise di vendere lo stabile che ospitava il punto vendita: tutti sfrattati. A quel punto l’Invicta voleva mandarmi presso uno store a Venaria, ma i miei genitori mi fecero una controproposta: “Fra un po’ andiamo in pensione… Vieni qui?».
Siamo nel 2008: il resto è storia. Una storia che così può andare avanti.
Sotto la gestione di Paolo, prima in coabitazione con i genitori, poi da solo accompagnato dalla moglie Michela Petino e dalla fidata Federica Perucchetti (molto di più di una commessa), la Valigeria Ambrosetti entra nel futuro: è la prima pelletteria d’Italia ad avere un negozio virtuale e il nostro è il primo commerciante varesino (in questo caso non c’è la statistica, ma i ricordi non sempre mentono…) a utilizzare i social in maniera proficua, facendo diventare se stesso, sua moglie e Federica dei testimonial dei propri prodotti. «La cosa più bella? Chi entra qui già ci conosce, ci dà del tu e subito si abbatte una barriera: è come se i clienti si fidassero di più di noi, si lavora meglio. Mi dicono: “ma allora sei tu quello di TikTok?”. E lo stesso accade con mia moglie e con Federica, che è diventata la nostra prima influencer. Abbiamo fatto corsi e creato un piccolo “ufficio marketing” interno: facciamo tutto noi, siamo noi tre a decidere ogni giorno cosa comunicare».
Il portafoglio di Marotta, la cintura dell’Artiglio
Valigeria Ambrosetti oggi è una case history che Paolo porta in giro per l’Italia, ma lo status raggiunto non ha cambiato l’attenzione al cliente, che sia il varesino o piuttosto chi le borse, i portafogli (o gli under seater, i trolley per le low cost, «i più gettonati adesso») li compra dalla Sicilia o dalla Sardegna: «Ormai è come se avessi due attività, quella fisica e quella online». Ci sono personaggi famosi che si servono qui - uno è l’attore Enrico Brignano - e diversi sportivi, soprattutto quelli legati alla Città Giardino: «Spesso viene Beppe Marotta - racconta Paolo - ex compagno di scuola di mio padre: l’ultima volta gli ho venduto un portafoglio di quelli old style, con la levetta ferma-soldi: dice che a Milano non ne trova più così… E poi Giancarlo Ferrero, persone splendida e squisita, nonché Max Ferraiuolo, cliente affezionato insieme a sua moglie e… Attilio Caja».
La “storia” con “l’Artiglio” vale la pena un inciso: «Un giorno si presenta qui Max con una cintura in una mano e una fibbia nell’altra… “Sai cos’è?” mi chiede… “È la cintura di Caja, la sua portafortuna, si è rotta e dice che senza di essa rischiamo di retrocedere…”». Il super tifoso biancorosso Paolo si mette una mano sul cuore, ne trova un’altra e la regala a Max, che la porta al coach: «Beh era l’inizio del 2018: Varese, da ultima, arrivò ai playoff… Da allora Attilio si fa mandare da me le cinture ovunque sia…».
Varese dalla vetrina però non è solo storia, ricordi, aneddoti e consapevolezza della strada fatta: è anche uno sguardo sulla Città Giardino da parte di chi tutti i giorni la respira, la sente, la vive.
Lo sguardo di Paolo Ambrosetti, si può dire così, non le manda a dire: «Io penso che Varese sia cambiata in peggio, soprattutto nella percezione della sicurezza. Abito e lavoro in questa zona della città (via Mazzini appunto, tra piazza della Repubblica e piazza XX Settembre ndr) e non mi azzardo a fare uscire mia figlia di 16 anni la sera da sola, nemmeno alle 18». «C’è gente poco raccomandabile, c’è meno gente in generale: negli ultimi 10 anni la clientela che entra nel mio negozio si è dimezzata».
E ancora: «C’è il problema dei furti, ormai non vale quasi più la pena fare la denuncia alle forze dell’ordine, che fanno tutto quel che possono ma non hanno mezzi o norme sufficienti. L’altro giorno è entrato un ragazzo, era tardi: è andato dove ci sono le cinture, ne ha indossata una, ha abbassato il maglione e senza colpo ferire si è diretto verso l’uscita. Io e Federica non ci volevamo credere…».
«Perché Busto, Gallarate e Legnano sì e noi no?»
Come si può migliorare, gli chiediamo? «Ci penso tante volte e non ho una ricetta. Di sicuro ci vorrebbe più luce per le strade e ci vorrebbero più eventi, soprattutto d’estate. L’amministrazione dovrebbe capire che le persone non vengono in città solo per fare un giro per i negozi, ma arrivano se c’è qualcosa ad attirarli: un concerto, un mercatino… Varese, in questo senso, si fa bagnare il naso da Busto Arsizio, Gallarate e Legnano». Paolo, però, fa anche autocritica, pensando alla sua categoria: «Noi commercianti dovremmo essere più uniti, meno invidiosi uno dell’altro: qualche anno fa abbiamo provato a creare il comitato “Diamoci una mano varesini”, che non voleva sostituirsi alle associazioni di categoria ma semplicemente fare qualcosa per ravvivare il centro: dopo un po’ è imploso. In altre città, porto l’esempio di Piacenza, i negozianti dei centri storici remano tutti dalla stessa parte e queste cose funzionano…».
Di una storia non solo nata nel 1930, ma che ogni giorno non si spaventa davanti al domani, si potrebbe andare avanti a scrivere per ore. Ma tra uno sguardo al futuro ancora più in là («Ogni tanto sogno di ritirarmi e andare in Spagna a giocare a padel» scherza Paolo, evocando una delle sue grandi passioni…) e due chiacchiere sugli amati figli Matteo e Gaia, in fondo c’è solo una domanda che rimane obbligatoria…
E se l’esame di maturità fosse andato bene? «Probabilmente avreste avuto davanti un architetto, chi lo sa…».