Enrico Albertosi, conosciuto da tutti come Ricky, è considerato uno dei migliori portieri di sempre ed è stato annoverato nella classifica dell'IFFHS, la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio, tra i più forti portieri del XX° secolo: campione d’Europa nel 1968 e vicecampione nel mondo nel 1970, ha vinto due scudetti con il Cagliari nel 1970 e in maglia Milan nel 1979. In carriera ha conquistato, tra l'altro, anche tre Coppa Italia (due con la Fiorentina, una in rossonero) e una Coppa delle Coppe in maglia viola.
Come ha iniziato a giocare in porta?
Fu mio padre, che giocava in porta in prima categoria a Pontremoli, paese dove sono nato, a portarmi al campo. Mi metteva in porta, tirava e io cercavo di parare: avevo 8 anni, poi a 13 iniziai a fare il portiere di riserva sempre nella Pontremolese, con compagni già adulti. A 14 anni ho preso il posto del portiere titolare, che era marinaio...
Però fu anche sua madre a spingerla ad andare avanti.
In un certo senso sì. Papà era contrario, voleva farmi fare il maestro elementare. Fu mia mamma a portarmi a fare il provino a La Spezia. Fui preso ed essendo minorenne, firmò lei il contratto per me: avevo 16 anni...
Quando giovavo a La spezia sapevo che la Fiorentina mi teneva sotto osservazione: arrivai a Firenze tre anni dopo, dove ho debuttato in serie A perché l'allora portiere titolare viola Giuliano Sarti si era infortunato. Di Giuliano posso dire che è stato un grande numero 1 e che da lui ho imparato molto. In allenamento osservavo ogni suo movimento per rubare il mestiere perché allora non esisteva la figura del preparatore dei portieri. A Firenze giocai dieci anni per poi andare a Cagliari.
Come prese questo trasferimento in Sardegna?
Male: avevo 29 anni e mi avevano promesso che sarei dovuto passare all’Inter. Onestamente a Cagliari non ci volevo andare: ma, non essendoci procuratori, se allora volevi giocare non potevi dire no. Poi mi ricredetti ampiamente perché a Cagliari mi sono trovato benissimo: nacque allora un particolare legame con la Sardegna che rimane vivo tutt'ora.
Se si parla di Cagliari, dobbiamo nominare Gigi Riva.
Nacque subito un'amicizia particolare. Siamo stati compagni di camera sia nelle trasferte con i rossoblu che con la Nazionale. Mi trovavo bene con lui, era un trascinatore, un uomo determinate per la squadra, e lo è stato anche per la terra sarda.
Ha ancora contatti con i suoi compagni di allora?
Certo, sono in contato e ci vediamo spesso con Riva, Tomasini, Copparoni, Reginato, Greatti, Poli. Un mio pezzo di cuore è in Sardegna.
È ricordato come il portiere che non usava i guanti...
Avevo imparato da Sarti. Con il tempo mi era cresciuto una specie di callo e mi veniva naturale così. Usavo i guanti di lana solo quando pioveva perché allora il pallone bagnato di acqua diventava pesantissimo e c’era maggior attrito.
Negli allenamenti come andava con il sinistro di Rombo di Tuono?
Gigi alla fine si fermava molto tempo a calciare le sue bordate e io, sinceramente, lasciavo volentieri il posto a Reginato e Copparoni, che alla fine erano pure contenti, nonostante qualche lamentela. Preferivo fare cosi per evitare di dovermi girare con la faccia contro la rete della porta: arrivavano certe fiondate...
Era un portiere avanti rispetto agli altri: perché?
Giocavo già con i piedi. Avevo un vantaggio e cioè che nelle partitelle di allenamento venivo schierato in attacco perché non mi piaceva molto giocare in porta, sia per non infortunarmi, sia per evitare le forti bordate dei miei compagni e di Riva. Sinceramente me la cavavo bene con entrambi i piedi.
Ad un ragazzo che oggi vuole fare il portiere cosa consiglia?
Di applicare il mio motto: «Il portiere deve parare il parabile. L'imparabile è quello che distingue il grande portiere dal portiere normale». Poi deve saper trasmettere fiducia ai compagni, non abbattersi psicologicamente se fa qualche sbaglio: ci sta, fa parte del ruolo. Vorrei ricordare che nel mio esordio da ragazzino presi ben quattro gol, poi imparai malizia e mestiere.
Rimpianti?
Nessuno: non vivo di rimpianti. Però ora che mi fa pensare, forse la finale mondiale di Messico 1970 con il Brasile: se quel pallone calciato da Gigi Riva e uscito di poco fosse entrato, forse la storia sarebbe cambiata.
Lei è stato in ritiro a Varese nei primi anni 70: qualche ricordo?
Bellissimi: alloggiavo con alcuni compagni a Varese, mentre altri erano a Leggiuno, nel paese nativo di Riva. Ricordo la bellezza del lago Maggiore e dei suoi luoghi incantati, in particolare le Isole Borromee.
Pochi giorni fa ci ha lasciato Giovanni Lodetti: come lo ricorda?
Come un uomo straordinario, mai sopra le righe. Eravamo amici anche se ci incontravamo da avversari. Durante i ritiri con la Nazionale eravamo spesso insieme. Giovanni dava il massimo in campo, correva per tutta la partita con grande semplicità e umiltà.
I portieri hanno le loro "bestie nere": chi fu la sua?
Certamente Omar Sivori: mi segnava sempre, era un mostro davvero, un calciatore incredibile. Poi come portiere ho sempre temuto il tiro mancino e la potenza di Riva, altra forza della natura.