Tutto incomincia da lì, da un calcio nel vento. Un gesto spontaneo, dettato dall’inconscio, un movimento del cuore espresso attraverso una gamba e un piede, un’idea folle e bellissima, il sigillo della passione. Eravamo soli, Pietro Anastasi ed io, sul campo del “Franco Ossola”, un mattino di primavera. Il motivo era una intervista, temi la sua vita di calciatore, il Varese e la Juventus, la città e il popolo biancorosso, sempre sospeso tra menzogna e sortilegio.
Il ricordo di quelle due ore trascorse a chiacchierare, con me che fotografavo Pietro nel catino di Masnago con il Sacro Monte sullo sfondo, è tornato alla mente di colpo alla notizia della retrocessione in Eccellenza della squadra di mister Porro, l’ennesima delusione per i tifosi che non meritano queste continue docce scozzesi.
Ho sempre tifato Juventus, come mio nonno e papà, ma il Varese l’ho sempre avuto nel cuore e alla notizia del leggendario 5-0 alle zebre torinesi il cuore diventò subito biancorosso «al ciento pe’ ciento», senza alcuna esitazione.
È inutile, oggi, pensare a quel Varese di Borghi, ma anche soltanto agli anni leggendari di Fascetti e Marotta, al calcio spumeggiante di Sannino, e nemmeno a rivangare la schidionata di personaggi improponibili che si sono succeduti per aumentare le disgrazie societarie, il Varese è in Eccellenza e da lì occorre ripartire, «voltand indré i manich», non per la città degli imprenditori e della politica, sorda e muta all’idea di un calcio più grande, almeno da serie C, ma per chi si è fatto chilometri su e giù per esserci e incoraggiare la squadra, con qualunque tempo e in qualsiasi stagione.
Certo, con la sola passione non si va lontano, occorrono “i schei”, e a Varese non ci sono Berlusconi e Galliani che portano dal nulla il Monza quasi in zona Uefa, unendo la fede e la competenza calcistica ai mezzi economici. Però, possibile che non ci sia un cane che prenda per mano la società e dica: «Ripartiamo con umiltà e forza, siamo il Varese, e lo facciamo per chi ha sempre creduto in noi anche quando non era più possibile?».
È vero che non esistono più i mecenati, ma quello che è scomparso è l’affetto, l’amore per la città, che ha sempre caratterizzato l’agire dei padri e dei nonni, una città che oggi ha perso ogni identità, ma che ancora, forse, si riconosce nel tifo per i colori e la nostra storia.
Così mi piace citare quel lontano giorno di primavera al “Franco Ossola”, quando, alla fine dell’intervista, io e Anastasi stavamo uscendo dal campo. Ma prima, Pietro, che era all’altezza dell’area piccola, fece una cosa che non dimenticherò: dopo due passi, mimò un tiro in porta, senza pallone. Voleva ancora fare gol, come quel giorno alla Juventus e come decine di altre volte sui campi d’Italia. La passione non muore mai, ed è da quella che bisogna ripartire.