Vanetti che intervista Vanetti. Ovvero Flavio, il sottoscritto, giornalista (di norma del Corriere della Sera), e Andrea, il capitano dei Mastini di hockey ghiaccio che sono ormai pronti alla serie finale del campionato contro il Caldaro. Al di là del cognome, c’è un filo, sottile ma ben presente, che mi lega ad Andrea: è proprio lo sport che lui pratica, mentre io lo osservo e al massimo lo racconto. I miei tentativi di essere pattinatore su ghiaccio - così come quelli nello sci - sono infatti velocemente franati (senza tempi supplementari) con ruzzoloni fantozziani. Però l’hockey è uno degli sport che apprezzo molto (pur nella mia cestofilia naturale) e proprio agli albori della professione, quando collaboravo a La Prealpina, sono stato il cantore dell’Argo Varese, l’”antenata” della squadra di oggi. E il mio primo servizio in esterno per la Gazzetta dello Sport, che nel 1982 mi aveva assunto, è stato di hockey ghiaccio: un viaggio da Malpensa a Bolzano con la grande Armata Rossa di Tret’jak, Krutov, Makarov, Larionov, Fetisov, lo squadrone che l’anno prima, in un incidente stradale, aveva perso un altro fuoriclasse, il mitico Kharlamov (che ammiravo sulla Tv svizzera nelle feste natalizie durante la Coppa Spengler). Quindi Vanetti che intervista Vanetti, entrambi varesini: più che un’intervista, una conversazione.
FV: Andrea, le tue radici varesine dove affondano? Le mie, dalla parte del nonno paterno, sono a Laveno Mombello.
AV: La mia famiglia le ha invece tra Inarzo e Casale Litta. Poi c’è stato il trasferimento a Valle Olona - credo che papà sia nato lì - e infine la base è diventata la zona della Brunella, in città.
FV: Io, appunto, ho cominciato con l’Argo: ero il cronista designato di quella squadra, prima che andassi a lavorare a Milano. A inizio 2023 sono tornato al Palaghiaccio a vedere un incontro per la prima volta dopo oltre 40 anni…
AV: Già, ma quali anni erano? Ah, sì, inizio anni 80. Ne mancavano quasi dieci alla mia nascita, io sono dell’agosto 1990.
FV: Qual è il primo ricordo dell’hockey ghiaccio?
AV: Ero piccolissimo, non ricordo l’età. Ma la prima partita probabilmente l’ho vista che non ero ancora nato ed ero nel grembo di mia madre: era tifosa e appassionata, perfino durante la gravidanza veniva al Palaghiaccio.
FV: In quegli anni Varese andava pure forte…
AV: Eh sì, dopo i due scudetti degli anni 80, l’inizio del decennio successivo è stato pure buono. E nel 1996 si vince la Federation Cup. Io ho un gran ricordo di Chad Biafore, era il mio giocatore preferito. Non so per quale motivo tifassi per lui, ero piccolissimo: forse per i capelli lunghi e rossi, lui era il Re Leone; comunque mi piaceva un casino, era un toro ed era diverso dagli altri. Dando spazio ad altri ricordi, ho in mente la scena in cui papà mi teneva su una sua gamba, piegata e appoggiata a una ringhiera: io, a cavalcioni, guardavo la partita.
FV: Hai mai pensato di dedicarti ad altri sport?
AV: No, mai. Papà si era appassionato all’Argo e allora la scelta è stata indirizzata. Ho provato però con il tennis e pure con il basket, perché a pallacanestro giocava un amico. Ho disputato un solo allenamento, il basket non faceva per me.
FV: Grazie al mio lavoro e ai giornali per i quali ho scritto ho avuto la fortuna di seguire dal vivo anche partite della Nhl. E tu invece?
AV: Io mai dal vivo… Però da quando ho cominciato a giocare a hockey, dunque tra 1995 e 1996, mi sono interessato pure al mondo dei professionisti. Erano appena apparse le playstation e il mio primo gioco è stato ovviamente quello della Nhl. Comunque scampoli di Nhl li ho avuti anche qui vedendo all’opera suoi giocatori: è capitato ai Giochi di Torino, o a Lugano quando in squadra avevamo dei bei nomi grazie al fatto che il torneo “pro” era fermo per il lockout.
FV: Ai Giochi 1998 di Nagano mi sono trovato a tu per tu con Wayne Gretzky e non ho avuto la prontezza di farmi fare l’autografo…
AV: Eh, succede...
FV: Nelle sale giochi c’era poi anche il gioco dell’hockey: un disco che scivolava su un tappeto d’aria andava colpito con una manopola.
AV: Altro che se me lo ricordo. Forse da qualche parte si trova ancora. A Lugano, comunque, ho trovato pure un calcetto, ma con gli hockeisti: una figata.
FV: Hai mai visto filmati storici di grandi giocatori e delle grandi squadre del passato?
AV: Sì, certo. E non mi sono perso, ovviamente, prima di tutto, quello del “miracolo sul ghiaccio” dei Giochi di Lake Placid: la storica vittoria dei dilettanti americani sullo squadrone sovietico. Daniel Eruzione, il nipote di Mike, capitano di quegli Usa, gioca a Bressanone ci ha pure fatto il gol decisivo nella prima partita di questo campionato.
FV: La squadra del “miracolo” fu anche l’ultimo tedoforo alla cerimonia inaugurale dei Giochi 2002. Ero presente, nel gelo di quella notte a Salt Lake City…
AV: Ah sì, mi ricordo che fu coinvolta tutta la squadra.
FV: L’hockey ghiaccio è un gran bello sport, ma in Italia è stato frammentato in maniera stolta.
AV: Sono d’accordo. È stato un peccato non aver cavalcato l’onda di certi anni per costruire qualcosa di più solido. Vale anche per il nostro contesto. C’erano i Biafore, i Figliuzzi, i Mansi e grazie a loro siamo arrivati noi. Poi c’è stato un buco, il movimento si è spaccato e questo è purtroppo l’emblema dell’Italia.
FV: L’Argo da una parte era squadra gradita, perché il patron Filiberti aveva investito e portato in serie A una piazza nuova, ma dall’altra era osteggiata perché i valligiani temevano che fosse una minaccia al loro potere.
AV: È un tema che ricorre sempre…
FV: Hai una certa esperienza a Lugano, cioè nella Svizzera dove l’hockey viaggia a un altro livello. Perché non sei rimasto lì?
AV: Dopo l’ultimo anno da junior ero nel roster della prima squadra: giocai varie amichevoli e un partita ufficiale. A fine stagione mi dissero che non c’era più spazio per la serie A: sarei potuto andare in serie B da qualche parte, oppure rimanere nella seconda squadra che partecipava alla cosiddetta prima lega. Ero a un bivio, non volevo andare lontano da casa perché avevo cominciato l’università. Così ho deciso di rimanere in prima lega per studiare ingegneria.
FV: Nessun rimpianto?
AV: Il rammarico è di non aver provato alternative che magari mi avrebbero portato al professionismo. Ecco, quel salto mi è mancato: non sono arrivato subito a certi livelli, ma magari avrei potuto raggiungerli tramite un altro percorso e crescendo continuamente. Ho scelto il piano B, con tutte le conseguenze.
FV: Diciamo che hai scelto di investire sulla vita dopo l’hockey.
AV: Ma quello l’ho sempre avuto nel mirino grazie ai genitori che mi hanno invitato a pensare a un’alternativa all’hockey perché non si sa mai come va a finire. Con il senno di poi sono contentissimo: non sono riuscito a fare il professionista a Lugano, ma in Italia qualche soddisfazione me la sono presa.
FV: Essere un Mastino che cosa significa?
AV: Vuol dire tanto. Significa essere disposti a sacrificarsi sempre. L’hockey è uno sport che pretende parecchio, in termini fisici, pratici e di tempo. Butti via tutti i week end a girare per l’Alto Adige, tanto per dire: ma se lo fai è per pura passione.
FV: Quanto è difficile far coesistere lavoro e hockey?
AV: Tanto. Ma in stagioni come questa non pesa per niente. I rientri notturni alle 5 del mattino te li trascini per qualche giorno, però poi ci pensi sopra e dici che va bene così. Nel corso della stagione regolare la situazione è ancora gestibile: ti alzi presto alla mattina, lavori, poi alla sera hai l’allenamento. Ma la partita è dopo “ics” giorni. Invece nei playoff, giocando ogni due giorni, diventa tutto più duro.
FV: A livello di guadagni c’è qualche tornaconto?
AV: Sì, ma non è proporzionato all’impegno che devi mettere. Non so se quelli che giocano a calcio si fanno lo stesso culo…
FV: Un pronostico per questa finale?
AV: Sarà una serie combattuta. Un pronostico? Eh, è difficile farlo… Ma io devo ancora aggiungere un pezzo al cerchio da chiudere.
FV: Quindi si punta al 2 su 2, dopo la Coppa Italia vinta?
AV: A me in fondo i pronostici non piacciono. Preferisco ragionare per obiettivi e quindi il 2 su 2 è chiaramente l’“obiettivo”.
FV: Anche perdendo la finale, Varese potrebbe ambire al salto di categoria: basterebbe che il Caldaro, in caso di vittoria, non considerasse quell’ipotesi. Ma pare che passare di grado non sia nei piani del club.
AV: La vittoria del campionato non darebbe comunque la garanzia della promozione: sarebbe una scelta autonoma della società. Io penso che convenga restare così, fare un “upgrade” comporterebbe enormi sforzi finanziari in più senza adeguati ritorni. E una lega, quella in cui gioca il Bolzano, è addirittura privata…
FV: Giocando in questo campionato non avete la sensazione di essere figli di un dio minore?
AV: Ma no. Non abbiamo questa percezione più che altro perché i vari mondi dell’hockey sono ormai distanti: non hai più l’idea di appartenere allo stesso movimento. Il divario con l’Alps League, per dire, c’è ed è grosso: l’ho sperimentato nel periodo in cui ho giocato a Milano.
FV: Qual è la caratteristica migliore di Andrea Vanetti?
AV: Credo di essere un centro abbastanza polivalente, utile anche nelle fasi difensive e di costruzione. Sono più assist-man che realizzatore: le cifre lo confermano.
FV: Invece, come squadra, quali sono i pregi e quali i difetti dei Mastini?
AV: L’aspetto migliore è la qualità del gruppo. Come ci vedete sul ghiaccio, così siamo anche fuori: compatti e uniti, pronti ad aiutarci a vicenda. Siamo poi la squadra dall’età media più alta, quindi siamo rodati ed esperti: è una caratteristica vincente. La debolezza? Forse proprio la carta d’identità: il rovescio della medaglia dell’esperienza lo paghi infatti con un inferiore atletismo; troviamo avversari freschi e molto pronti sul piano fisico, quindi devi compensare con il mestiere.
FV: Convivente, senza figli: quando arriverà un bambino a casa di Andrea Vanetti, sarà destinato all’hockey ghiaccio?
AV: Molto probabilmente sì. Il nipote acquisito viene già alle partite nonostante abbia appena due anni e mezzo. Forse l’abbiamo già “perso”: gli ho detto di non pensare all’hockey e di fare altro, ma pare che non dia retta.
FV: Dopo gli anni bui culminati nel fallimento del club e nella sparizione ad un certo livello, Varese ha riscoperto l’amore per l’hockey. E lo sta coltivando grazie a un’atmosfera bellissima. C’è qualcosa che ancora si può fare per migliorare il rapporto tra la città e la squadra?
AV: Sarebbe bello se un giorno si potesse davvero compiere quel salto di qualità, magari in un hockey italiano finalmente riunito e ricompattato. Ma questo non dipende da noi, così l’unica cosa che possiamo fare, anzi dobbiamo fare, è continuare a investire sui giovani, affidandoli a chi è più esperto. In breve: dobbiamo pensare sempre al futuro. La scintilla con cui siamo riusciti a riaccendere il fuoco della passione della gente di Varese nasce dal fatto che altri, prima di noi, avevano fatto la stessa cosa. Ora la palla, anzi il disco, deve passare ad altri.