La Varese Nascosta | 25 giugno 2022, 08:00

LA VARESE NASCOSTA. L'ultima corsa automobilistica Varese-Campo dei Fiori, il Grand Hotel e una storia di famiglia

Il 26 giugno 1960 si corse l'ultima edizione della competizione. La sua storia si intreccia con i ricordi legati alla famiglia Moneta, allora proprietaria del Grand Hotel: un affresco di un'epoca e di una Varese che non c'è più

LA VARESE NASCOSTA. L'ultima corsa automobilistica Varese-Campo dei Fiori, il Grand Hotel e una storia di famiglia

Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alla storia, agli aneddoti e al patrimonio storico e culturale di Varese e del Varesotto in collaborazione con l'associazione La Varese Nascosta. Ogni sabato pubblichiamo un contributo per conoscere meglio il territorio che ci circonda.

Come è scritto nella presentazione del sito dell'associazione nata nel 2015 anche grazie all'indimenticabile Andrea Badoglio, "portiamo alla luce la Varese sotterranea, storica, misteriosa, sconosciuta e nascosta, con le sue tradizioni e origini che si stanno perdendo. Rintracciamola, scopriamola e cerchiamo informazioni su tutta la Provincia".

Oggi parliamo, attraverso un contributo riportato da Paola Molinari, di una corsa davvero particolare...

Il 26 giugno 1960 ci fu l'ultima corsa automobilistica Varese-Campo dei Fiori: da qui ripropongo questa storia un po' lunga ma ne vale la pena leggerla. Vi perderete nei ricordi di Paolo Moneta il nipote di Giulio Moneta padrone del Grand Hotel Campo dei Fiori e della sua mamma Maruska figlia del Commendatore e rivivrete l'atmosfera di allora.

Ricordi del Grand Hotel Campo dei Fiori raccontati da Paolo Moneta 

La prima volta che salii al grand hotel Campo dei Fiori correva l’anno 1953.

Poi, per 15 estati consecutive, ebbi la fortuna di trascorrere almeno un mese all’anno in quell’inconfondibile albergo che si affaccia sulla costa della montagna.

Seppure bambino, avevo allora 7 anni, è stato impossibile non innamorarsi all’istante dell’incredibile panorama che si poteva ammirare.

Insieme al Giovannino Soldati (era il figlio dello storico custode di allora) salivamo di corsa le scale (nel grande hotel, l’uso dell’ascensore, in assenza del lift, era vietato a chi avesse meno di 10 anni ed in ogni caso era abitudine che i ragazzini, in assenza di un adulto, salissero a piedi).Raggiunti i lunghi balconi al sesto piano, facevamo a gara nel cercare di individuare nello spettacolo che si presentava ai nostri occhi, quel piccolo puntino d’oro in fondo alla pianura, che corrispondeva alla Madonnina del Duomo di Milano.

Anche un tale sig. Ciotti, circa 60 anni prima, siamo quindi verso la fine dell’800, si divertiva ad ammirare quell’incredibile panorama. Ciotti era un escursionista varesino che, affascinato da quella montagna, trascorreva i suoi week-end a percorrere, per filo e per segno, tutti i sentieri che giravano intorno al Campo dei Fiori.

Era tanta la passione per quel monte che il Ciotti, siamo poco oltre il 1900, acquistò una vasta parte di terreno e decise di costruirvi un piccolo rifugio alpino, proprio dove ancor oggi ha sede il cosiddetto ristorantino, che corrisponde alla costruzione che si eleva subito dopo la funicolare.

Complice il contestuale sviluppo della rete dei trasporti (in particolare funicolare e tranvie) – siamo arrivati al 1907 – alcuni imprenditori, interessati ad investire nel turismo a Varese e al Campo dei Fiori, decisero di acquistare dal Ciotti rifugio e terreno.

Si costituì così la Società Anonima dei Grandi Alberghi Varesini (SGAV) e fu incaricato l’architetto Giuseppe Sommaruga, affinché progettasse degli edifici a scopo ricettivo, alcuni dei quali da costruirsi nella zona del monte Tre Croci.

Nella fattispecie, fu commissionato un albergo da 30 camere (che diventerà poi il Ristorante Belvedere), le stazioni della funicolare e un altro hotel da 200 camere (il Grand Hotel), molto lussuoso.

Inoltre, la realizzazione della deliziosa funicolare, costruita tra il 1908 e il 1913, agganciata ai tram che conducevano alla stazione e da qui alla ferrovia per Milano, rendevano facilmente raggiungibile il Grande Hotel anche dal capoluogo lombardo.

Due ore di treno da Milano a Varese e poi, come un perfetto orologio, in 20 minuti, via tram e funicolare, si arrivava all’hotel.

Il Grande Hotel Campo dei Fiori viene aperto ufficialmente nel 1912.

Il suo successo fu immediato.

All’interno del Grande Hotel venivano ospitate personalità del tempo importanti (si racconta di marchesi e di principi, per certo ospitò il re di Danimarca con consorte) e la ricca borghesia; alcune testimonianze ricordano poi che all’interno del ristorante Belvedere, una volta finito di pranzare venivano allestite delle danze che si prolungavano sino a sera.

Intorno agli anni ’30 la Società Grandi Alberghi Varesini passò di mano e venne acquistata da un imprenditore milanese, impegnato soprattutto nel settore metalmeccanico, che intendeva diversificare i propri investimenti, il commendatore Giulio Moneta che, per mia cugina Elisabetta Moneta Mazza e per me, era semplicemente il ‘nonno Giulio’.

Di quel periodo, non essendo ancora nato, non posso avere ricordi diretti.

Ho perfetta memoria però di quanto mi raccontava la mia mamma, e che è stato trascritto in un libricino di appunti di famiglia.

Estate del 1938. Campo dei Fiori.

Nonno Giulio, come di consueto, ha invitato (o meglio, obbligato a partecipare) tutta la sua numerosa famiglia al pic-nic domenicale alla punta d’Orino.

La famiglia è molto numerosa.

Oltre al nonno ed alla nonna, ci sono gli otto figli, due dei quali già con il rispettivo consorte, qualche amico, le tre governanti di casa.

Il gruppo sale alla spicciolata i pochi chilometri in leggerissima salita verso la meta.

Nonno Giulio e nonna Gemma chiudono il gruppo.

Mio papà Fausto ha scelto questa occasione per presentare al nonno la ragazza che vorrebbe sposare. Fausto e Maruska (così si chiamava la mia mamma) si frequentano già da qualche tempo essendosi conosciuti in vacanza a Pegli la precedente estate.

Il benestare paterno, ai tempi, era ‘conditio sine qua non’ perché si arrivasse alle nozze. Non che i matrimoni fossero combinati, ma comunque il placet di papà e mamma era essenziale.

La scelta della presentazione ufficiale di Maruska in questa occasione, oltre che essere stata messa a punto con la complicità della nonna, era altamente strategica: location (come si direbbe oggi) del tutto informale all’aria aperta, con tutt’intorno una specie di claque (fratelli e congiunti) del tutto propensa ad una totale approvazione.

Il gruppo parte a metà mattinata dall’albergo e, in poco più di un’ora, raggiunge la Punta d’Orino.

Le donne si apprestano alla preparazione del pic-nic.

C’è un quadro famoso di Claude Monet, ‘déjeuner sur l’herbe’, che calzerebbe a pennello per illustrare il momento (divertente coincidenza, a Monet basta aggiungere una ‘a’ perché diventi Moneta).

Fausto decide di rompere subito il ghiaccio.

Si avvicina al nonno (la nonna era al suo fianco pronta ad intervenire in caso di necessità) e, emozionatissimo, presenta la mamma e manifesta il loro desiderio di sposarsi.

Nonno Giulio, in rigoroso silenzio, squadra la ragazza da cima a fondo.

Lascia passare qualche interminabile secondo, poi, in rigoroso dialetto milanese, esprime il suo primo pensiero:

“Pu se tard te rispondaria”.

Il pic-nic prosegue in serena allegria per tutti, certamente con un po’ di agitazione nel cuore dei due fidanzatini.

Passano le ore, ma la risposta non arriva.

Finalmente, poco prima che ci si incammini sulla via del ritorno, il nonno chiama a sé i due ragazzi.

Il quadro vede nonno e nonna seduti su due seggiole da pic-nic, i due promessi sposi in piedi davanti a loro, con fratelli ed amici a calcolata distanza (sufficiente perché possa sembrare che non siano interessati alla cosa, ma in realtà con le orecchie ben tese per non perdere alcuna parola).

‘Mi g’avei pensà – esordì il nonno – per ti, a la figlia del Borletti. Ma la Maruska la me pias, la me par na brava tusa’.

Completò questa prima parte della sua esposizione guardando la nonna, per avere un cenno di approvazione che prontamente arrivò.

Poi riprese e concluse: ‘Ma, me racumandi, scurcià i telefunad!’

Papà e mamma si sposarono a Milano, nella basilica di San Vittore, il 13 dicembre 1941.

Durante la guerra l’hotel era diventato un ospedale e sul grande terrazzo che è sopra al salone sono rimaste per decenni le tracce di una grande croce rossa, che doveva impedire agli aerei nemici di bombardarlo.

Dopo la conclusione della seconda guerra l’hotel è stato riaperto, ma la viabilità stradale e ferroviaria e l’esplosione del mercato dell’automobile resero molte altre mete turistiche ben più competitive ed attraenti in confronto alla proposta del Grand’ Hotel.

L’albergo inoltre, avrebbe avuto bisogno di un impegnativo ‘restyling’.

L’arredamento delle camere era ormai obsoleto, l’insonorizzazione tra le camere stesse (divise tra loro da una porta comunicante e raramente da un muro) praticamente nulla, le cucine abbisognavano di una completa risistemazione, i serramenti presentavano inevitabili segnali di usura.

Cominciavano, purtroppo, a presentarsi tutti i problemi che avrebbero portato alla definitiva chiusura dell’albergo.

Nonno Giulio ne approfittò allora per realizzare uno dei suoi più manifesti desideri: quello di poter aver l’intera famiglia, allargatissima, intorno a lui.

Per ben 15 anni, il quarto piano del Grande Albergo fu interamente destinato, per l’intero periodo di apertura, da giugno a settembre, alla famiglia Moneta che, via via, era diventata sempre più numerosa.

Eravamo davvero in tanti: nonno e nonna, sei figli con consorte e, nel tempo, arrivarono 26 ‘monetini’. Il totale è presto fatto: 40 membri della famiglia, cui andavano aggiunte le necessarie bambinaie.

Anche la parte più piccola del grande salone ristorante era interamente dedicata ai Moneta.

Solitamente, ogni famiglia mangiava ad un proprio tavolo.

Ma spesso il nonno amava fare un’unica tavolata, a ferro di cavallo e, ovviamente, al centro sedeva il grande capo con al fianco la sua inseparabile Gemma.

Per noi nipoti, la terza generazione per intenderci, le vacanze al Campo dei Fiori erano una pacchia.

Lo zio Vittorio, insieme a suor Sandra, gli unici non sposati degli otto figli dei nonni, si dedicava anima e corpo all’intrattenimento dei ragazzi, ivi inclusi tutti i clienti che rientravano in quella fascia di età.

Le mini-olimpiadi, dove il campo da tennis veniva per l’occasione elevato a stadio olimpico, erano uno dei momenti clou delle vacanze (al proposito devo tristemente ricordare una medaglia d’oro vinta da Elisabetta nel salto in lungo, precedendo due cugini maschietti e più grandi di un anno, Marco ed il sottoscritto).

Lo zio teneva inoltre un corso di teatro, che si concludeva con la rappresentazione finale alla presenza di tutti i clienti.

C’era poi la consueta passeggiata settimanale, dove il canto ‘doli doli cimbali’ accompagnava il gruppo per l’intero percorso.

Il nonno fece di tutto per ‘salvare’ il suo gioiello. Cercò, nello sport, l’ennesimo tentativo di rilancio.

Si adoperò perché venisse ripristinata la corsa automobilistica Varese-Campo dei Fiori, gara in salita, disputata la prima volta nel 1931 e corsa per i quattro anni successivi lungo i 10 km. di strada che dividevano viale Aguggiari, località di partenza, dall’ingresso del Grande Hotel.

Finita nel dimenticatoio nel 1935, solo nel 1950 fu riportata in auge, con cinque ulteriori edizioni, l’ultima delle quali si corse il 26 giugno 1960.

Vi prendevano parte sia i facoltosi gentlemen driver dei primi anni ’30, che correvano su Lancia, Bugatti e Alfa Romeo, fino ai giovani di belle speranze del dopoguerra, con le Fiat 500, 600, 1100, le Abarth e le Giulietta Sprint, i bolidi della classe Sport e una miriade di “barchette”.

Le diverse edizioni videro al via i più grandi campioni del momento, tra cui Gigi Villoresi, Renato Balestrero, Eugenio Castellotti, Giovanni Bracco e Odoardo Covoni, ultimo vincitore e recordman della corsa.

Ma per noi ‘monetini’ il più grande pilota che partecipò a quella corsa automobilistica fu però lo zio Toto, al secolo Antonio Moneta, settimo figlio di nonno Giulio, che sulla Cisitalia di proprietà dell’amico Sfondrini ottenne un favoloso secondo posto di categoria.

Penso che zio Toto conoscesse a memoria ogni centimetro del percorso, e questo l’aiutò non poco ad ottenere quel meraviglioso risultato. E tutti noi, esaltati e festanti, ignorammo Castellotti e la sua Ferrari che vinsero quella edizione, per portare in trionfo l’idolo di casa.

Nel 1957 anche il giro d’Italia fece tappa proprio al Grande Hotel.

Si puntava molto su questo evento.

Era uno dei primi anni in cui la televisione seguiva il giro, dedicando ben due ore di trasmissione in diretta.

Non c’erano ancora, ovviamente, le telecamere mobili, ma le numerose telecamere fisse, posizionate in punti strategici ai vari piani dell’albergo per cercare di inquadrare al meglio più tornanti possibili, avrebbero rappresentato uno strepitoso spot pubblicitario.

Purtroppo, Giove Pluvio decise di non allearsi con l’opera del Sommaruga.

La nebbia e la pioggia accompagnarono l’intera salita, mentre le telecamere inquadravano esclusivamente il piazzale martoriato dalla grandine.

Si attivò solo all’ultimo la telecamera posta a 500 metri dall’arrivo, all’ultima curva, giusto per inquadrare nelle nebbia e sotto la pioggia battente Charly Gaul che aveva appena superato il nostro Arturo Sabbadin.

Il lussemburghese vinse la tappa, conquistò la maglia rosa e poi vinse quel Giro.

Il Grand’Hotel, invece, perse l’ennesima occasione di un possibile rilancio.

Nel 1958, con la chiusura della funicolare, il flusso turistico diminuì ulteriormente e nel 1968 albergo e ristorantino chiusero definitivamente i battenti.

Nel ventennio successivo i nostri zii, essendo mancato il nonno ed avendo ereditato la società proprietaria del grande hotel, cercarono inutilmente diverse soluzione per ridare vita all’albergo.

Furono fatti diversi studi di fattibilità: si penso ad un casinò, ad un complesso di mini-appartamenti arricchendo il grande parco con adeguate strutture sportive, ad un centro di formazione di qualche multinazionale.

Purtroppo, e qui il discorso diventerebbe un po’ delicato, l’amministrazione comunale e i difensori ad oltranza dei beni culturali resero impraticabile ogni possibile soluzione.

Negli anni ottanta, vista l’impossibilità di ridare vita al grande albergo, la famiglia Moneta cedette alla famiglia Castiglioni l’intera proprietà.

Paola Molinari da La Varese Nascosta

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