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Gallarate | 24 marzo 2022, 19:56

«Qui alla stazione di Przemyls profughi nel loro dignitoso dolore. Neanche i bambini urlano»

Il gallaratese Bruno Carenini al confine con l'Ucraina continua a documentare l'assistenza a donne, piccoli e anziani con narrazioni e immagini: «Una sferzata di vento ghiacciato sul volto. Tutti alla ricerca affannosa di un perché tutto questo sia stato possibile»

Un'immagine scattata da Bruno Carenini: un anziano e un bimbo, tra i profughi ammutoliti in Polonia

Un'immagine scattata da Bruno Carenini: un anziano e un bimbo, tra i profughi ammutoliti in Polonia

Un vecchio accovacciato con un bambino. Nell’inferno di dolore e disorientamento che si spalanca alla stazione di Przemyls, il gallaratese Bruno Carenini porta via questa immagine e la sente come altri volontari già gli avevano descritto: «Una sferzata di vento ghiacciato sul volto». Il manager, esperto di relazioni internazionali, blogger, giornalista, è andato al confine con la Polonia per offrire il proprio aiuto e anche per documentare.

Perché è importante raccontare, far capire cosa accade, fino in fondo, a tutti noi. Ma a volte è davvero difficile riprendere i profughi, il telefonino scivola con pudore nella tasca. Qui – spiega Carenini - arrivano da Leopoli in treno donne, anziani, bambini e ragazzi sotto i diciotto anni: «La stazione, “stacja kolejowa” come la chiamano qua, è incastonata in una piccola piazzetta del centro, a farle da anticamera una fila ordinata di piante e ai lati caffè e bar ordinati». L’ordine è ciò che colpisce, come un paradosso, ma basta poco e lo scenario si capovolge: «È solo quando apro la porta d’ingresso che sento mancare il fiato. Solo profughi in fila, cameramen, giornalisti di televisioni straniere e fotoreporter seduti a terra alla ricerca dell’inquadratura migliore con l’obiettivo puntato sul dramma, tutti in un risicato spazio vitale. In mezzo a loro, figure femminili giovani e anziane vagano smarrite, chi cercando una tazza di minestra chi, un posto a terra dove sedere e far dormire il bambino».

Bruno attraversa i corridoi e accarezza con lo sguardo sale d’attesa, biglietteria, ma ogni spazio è cambiato ed è diventato un luogo d’assistenza. «I volontari, molti, ancora una volta sono figure benedette dalla provvidenza, sorridono, prendono mani e porgono, porgono aiuto e speranza – racconta ancora - Mentre fuori cammino per raggiungere i sottopassaggi che portano ai binari, incrocio, sacerdoti, frati, suore, scout non hanno il gilet fosforescente dei volontari ma lo sono senza sosta, hanno volti stanchi, camminano lentamente e mentre lo fanno cercano gli occhi di qualcuno che chiama». C’è una lunga fila ai bagni, il problema sanitario – avvisa – prima o poi emergerà. Ma adesso si impone all’attenzione altro: « Quelle che vedo sono anime senza tempo, disperse nel loro dignitoso dolore, non si sentono urla, grida, neppure con la presenza di bambini, quasi tutti ammutoliti, alla ricerca affannosa di un perché tutto questo sia stato possibile».

C’è Alexandra, con il suo bimbo che esita a salire sull’autobus diretto al Centro umanitario. È il dopo che le interessa e quando le dicono che poi andrà in Danimarca, fa per muoversi, ma una telefonata del marito la blocca: sicura è la Germania. Sicura, una parola che suona così assurda adesso. Bruno cammina, fino a quella scena che lo inchioda sul finale: «È lì, vicino alla porta che vedo accovacciato un vecchio con un bambino, il suo volto mi colpisce d’intensità, smarrimento e sofferenza, ecco… Con gli occhi umidi varco la porta, il sole, il piazzale quasi vuoto… sono uscito dall’inferno».

Ma. Lu.

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