Per iniziare chiediamo un aiuto alla geometria o, meglio, all’elementare gioco enigmistico dei puntini da unire. L’intento è quello di disegnare su una mappa immaginaria di Varese una sorta di triangolo, prendendo come punti di riferimento e quindi come vertici tre simboli a loro modo fondamentali della stessa.
Il primo, Villa Panza, è prova provata di quanto possa essere cristallina e salvifica la condivisione del bello, nonché contenitore d’arte (e non solo) nato dalla passione culturale di persone illuminate e addirittura arricchito dal passaggio a una dimensione pubblica, grazie alla tutela e al lavoro di chi sa quel che è necessario fare.
Il secondo: i Giardini Estensi e la loro Villa Mirabello. Gli uni, primi inter pares tra i contenitori di natura urbana che negli ultimi tre secoli hanno reso plastica la connotazione con cui Varese è diventata famosa, sfruttando la sua migliore caratteristica. L’altra, nuovo esempio di patrimonio privato ora nelle mani della collettività e museo che racconta l’ennesima eccellenza del territorio che ci circonda: l’archeologia.
Il terzo, alla base del triangolo, è rappresentato da Villa Mylius e dal suo parco, che arrivano al cuore non solo per l’emozione estetica che suscitano e per la loro ricchezza naturale, ma anche per costituiscono una delle tante scoperte che Varese ancora riserva ad abitanti e turisti.
In mezzo all’unione di questi tre lati non c’è solo una parte del centro cittadino geograficamente detto: c’è, soprattutto, un quartiere che non ha ancora capito di avere in seno le caratteristiche, le virtù e le possibilità di diventare un altro tipo di centro. Di arte, cultura e design.
Sulla stessa carrozza
Via Veratti e via Staurenghi. E le strade che le intersecano, costituendone la reciproca comunicazione: via del Cairo, via Speri della Chiesa, via Cesare Battisti. Infine via Carlo Robbioni, interna e parallela alle prime due. Si tratta di una parte della Città Giardino che un tempo custodiva il segreto del commercio, in alcuni angoli addirittura dell’industria, oltre a una dimensione residenziale che sdoganava l’apertura del cuore urbanistico verso la periferia.
Durante il viaggio nell’epoca contemporanea, il treno ha fatto scendere dei passeggeri e ne ha acquistati altri, forse inconsapevoli di stare insieme su un’unica e proficua carrozza. Le fabbriche - una volta anche il primo burrificio Prealpi - se ne sono andate lontano. I negozi, dal canto loro, sono sempre di meno, a scontare la concorrenza con vicine aree elette a regine dello shopping, da corso Matteotti alle strade che sfociano verso piazza della Repubblica.
Mentre la transizione si compiva, lasciando anche vuoto e disuso dietro di sé, a rimanere in loco o a trovarvi dimora erano però anche piccoli pezzi di una storia diversa, una storia che respira sempre (magari sotto traccia) anche dove sembra esserci solo aridità.
Rimaneva il Teatro Santuccio, poi riscoperto arena prediletta per la creatività (in prosa, musicale, informativa) di tante associazioni. Rimaneva la sala Veratti, refettorio dell'ex convento di Sant’Antonino, gioiello affrescato e consacrato dal Comune divenuto proprietario a esposizioni e occasioni di rilievo. Rimanevano giardini nascosti dalle mura di palazzi e ville: dentro una di queste, Villa Zanotti, nell’ultimo isolato che via del Cairo disegna con via Sacco, prendeva posto la “casa” di un forestiero (è un mantovano) che per Varese ha fatto ben più di tanti autoctoni: Marcello Morandini, architetto, scultore, designer. Nella sua Fondazione ecco finalmente l’habitat naturale per le sue opere e per promuovere l’arte concreta e costruttivista attraverso programmi espositivi, conferenze e pubblicazioni, con l’obiettivo di diventare una tra la più importanti istituzioni culturale in Italia e in Europa per questo preciso movimento artistico e le sue espressioni future.
Sì, proprio a Varese.
Ma non è finita. In anfratti delle stesse vie, nascevano sperimentazioni che provavano a nutrire la città di bellezza multiforme, miscelando anche qui arte, design, cultura eno-gastronomica, musica, moda, poesia, intercettando protagonisti sempre nuovi e scommettendo su di loro, rischiando per assaporare il gusto di una pulsione che potesse ammantare e sanare la freddezza di chi non conosce, quindi si abitua e poi rinuncia. Perdendo di conseguenza la propria anima. Futuro Anterione Spazio Tempo ne è un esempio, come lo sono gli eventi che si sono provati a costruire anno dopo anno e lo sono altrettanto le associazioni che in questa zona hanno sede. Una su tutte: WgArt, che promuove l'arte urbana e la creatività giovanile e ha regalato a via Speri della Chiesa uno splendido murale.
Pochi forse lo hanno capito fino in fondo, ma l’unione di queste e altre realtà potrebbe eleggere tale partizione di Varese a Distretto cittadino dell’Arte e del Design. Chi lo ha detto che solo le grandi città possono avere le vie Tortona, le Brera, i quartieri Monti (Roma)? Qui sotto alle Prealpi gli elementi ci sono, hanno tenuto botta o sono nati come funghi inaspettati, bagnati da quel poco di rugiada sotto forma di amore e idee. Ora serve solo unire i puntini. Non parrebbe troppo difficile.
Non luoghi da riempire
A patto, però, di prendere una direzione precisa. In prima battuta facendo determinate scelte urbanistiche, che sappiano anche cogliere delle opportunità. La risistemazione di via del Cairo è una di queste ed è già stata brillantemente colta, firmata proprio da Marcello Morandini (lupus in fabula) e dall’architetto Corrado Tagliabue: diventerà la prima via dell’arte di Varese. Al posto dell’asfalto verrà creata una composizione fatta di linee e campiture in tre diversi graniti (bianco, grigio, nero), tale da donare a chi la percorrerà un senso di tridimensionalità in un contorno di alberi e sedute. Sarà pedonale, anzi di più: inviterà, con le sue forme, le sue luci e i suoi colori alla passeggiata e alla contemplazione, diventando anche terreno fertile per esposizioni a cielo aperto. Arte su arte.
Un primo passo verso altri simili? Si spera. L’immaginazione allora corre verso la pedonalizzazione (permanente o a tempo, dopo una certa ora o nei weekend) anche delle vie interne circostanti, sensibili - chiudendosi al traffico - di non creare nocumento alla viabilità del centro: diventerebbero contenitori per ennesime idee, ennesime novità, ennesimi ispiratori.
Il secondo punto è in una celebre frase dello scrittore americano Henry Miller: “la nostra meta non è mai un luogo, ma piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. Cosa serve al nostro Distretto dell’Arte e del Design, oltre alla fruibilità? Servono tanti “non luoghi” da riempire di volta in volta di contenuti diversi, scatole bianche che prendano le caratteristiche di ciò vi viene rappresentato. Muri intonsi che vivano di colori per poi ritornare puri, aspettando nuove sfumature senza soluzione di continuità.
Anche i suddetti “non luoghi” sarebbero già a disposizione, basterebbe risistemarli e riaprirli: i negozi con le saracinesche ormai completamente abbassate in via del Cairo e in via Robbioni, oppure l’ex Ufficio d’Igiene, che potrebbe ospitare un’accademia delle arti tutta varesina o un museo dell’arte moderna.
Il terzo punto è riuscire a comunicare un fermento che possa contagiare la cittadinanza, dando voce ai protagonisti dell’arte, della cultura e del design che popolano l’area in questione e altre della città, nel secondo caso facendoli convergere sul Distretto. Necessaria diviene in primis una mappatura di tutte le realtà artistiche varesine, poi la loro messa in rete, quindi la creazione di percorsi che orientino la voglia di scoperta di indigeni e visitatori, facendo al contempo emergere chi non è conosciuto o valorizzando chi lo è già ma potrebbe esserlo di più. L’arte è di tutti e anche a Varese va data l’opportunità di crescere: forse è solo necessaria un po’ di “educazione” al bello. Il Distretto ne diventerebbe scuola.
In ciò un ruolo fondamentale dovrebbe essere giocato dall’amministrazione comunale, chiamata a coinvolgere, organizzare, creare, aiutare, sdoganare quella sensibilità che ancora manca, fornire a chi ha intenzione di investire la possibilità di farlo e a chi conosce la materia e vorrebbe mettersi in gioco la chance di riuscirci. Tenendo presente un punto fondamentale: chi lavora nell’arte e per l’arte non è obbligato a farlo per la gloria…I suoi guizzi, proprio perché in grado di elevare il rango di una città e dei suoi cittadini, devono godere della sostenibilità propria di qualsiasi altra professione.
Lo immaginiamo tutti insieme questo futuro? E con esso anche quello di altri quartieri della Città Giardino, ognuno con una vocazione diversa? Il sogno è uno e ben identificabile: avere tante Varese diverse - peculiari, attrattive, dedicate - in un’unica Varese. Una piccola, pulsante, multiforme e variegata metropoli di soli 80mila abitanti, capace di crescere perché in possesso - in qualche caso ancora solo potenziale - delle qualità per farlo.