La carriera calcistica di Bruno Mayer è stata breve ma intensa, ricca di colpi di scena e tanta sfortuna. Il fortissimo libero veneto arriva a Varese nel 1968, assieme ad altri tre conterranei: Valmassoi, Pianta, Dariol. Come era consuetudine allora frequenta il Collegio De Filippi e si diploma geometra. In collegio conosce Marini, Gentile, Ramella, Volpi, che diventerà poi medico dell’Inter, dopo aver giocato nel Como e a Reggio Emilia. Ha esordito in serie A con i biancorossi con la Roma il 3 novembre del 1974 con un pareggio; ha poi disputato 21 incontri in serie B nel vittorioso campionato anno 1973-74.
Mayer, ci racconta la sua storia calcistica?
Sono arrivato a Varese e ho fatto tutta la trafila nelle giovanili, giocando con Libera, Calloni, Ramella, Gentile, Fusaro... Mi sono fermato sino al 1970. Poi mi hanno mandato in prestito al Chieti, l'anno successivo all'Alessandria, poi sono tornato a Varese dal 1973 al 1975. Infine, dopo un banale infortunio che mi ha fermato per parecchio tempo, sono andato ad Ancona e a Livorno.
Di che infortunio si trattò?
Niente di speciale. All’ inizio fece infezione un callo sotto al dito del piede destro. L’allora dottor Frattini, medico sociale, mi accompagnò per una medicazione al pronto soccorso: decisero di toglierlo e mi diedero dei punti di sutura. Vista la difficile posizione, la sutura non teneva. Era un continuo avere infezioni e togliere e mettere medicazioni. Purtroppo faticavo a camminare e non riuscivo a correre: così mi dovetti fermare per parecchio tempo.
Chi ha avuto come allenatori a Varese?
Liedholm e Maroso, due magnifiche persone. L’allenatore svedese mi voleva un gran bene e, quando finito gli allenamenti mi fermavo per allenare Gedeone Carmignani, continuava a ripetere che avevo delle doti naturali. Ricordo che spesso ci portava agli allenamenti con la sua Fiat 600: solitamente ero con Valmassoi e Pianta. Maroso era unico e geniale. Il Peo non riusciva a capire perché spesso e volentieri avevo la valigia in mano, ma allora era così: la società mandava in prestito i suoi calciatori a farsi le ossa prima di esordire in prima squadra, anche se eravamo importanti per formare la rosa.
Ha comunque avuto riconoscimenti calcistici nonostante la sfortuna?
Ho smesso presto, a 26 anni, per la rottura di un legamento del ginocchio e frattura del perone in un'amichevole con il Napoli, organizzata da Omar Sivori e Maroso. Nel mio percorso sportivo ho giocato nella nazionale militare, mi ha premiato la Gazzetta dello Sport come miglior libero quando giocavo ad Ancona, dove mi sono trovato benissimo con i tifosi, con la società, costruendo un bel rapporto con la città.
Come era la vita da giovane calciatore?
Si doveva studiare oltre che allenarsi. Lo studio era di primaria importanza. Ricordo la vita di collegio con Monsignor Pigionatti e Don Gino, che ci teneva sotto pressione. Poi don Gino diventò Cappellano al carcere minorile di Milano e ci prestava il suo maggiolone verde per andare in centro città: era una goduria. I soldi degli ingaggi non erano molti, ci davano il premio partita però si doveva mandarli alla famiglia. Pensi che sono riuscito ad aiutare mio papà a costruire la casa... Si aveva poco potere sindacale, non esistevano i procuratori, si accettava quello che ci davano altrimenti non giocavi. Per noi ragazzi di quel gruppo era importante giocare e divertirci.
Ha giocato con Roberto Bettega?
Qualche partita, poi anche Roberto quando arrivò a Varese prese una grave infezione ai polmoni e rimase fermo. Poi mi trasferirono e non riuscì più a vederlo, se non in servizio militare a Torino.
Ci racconti.
io ero autiere a Torino. Stavo riportando in caserma il mio capitano e vidi Roberto attorniato da alcuni tifosi. Il capitano si accorse e mi ordinò di fermarmi. Io scesi dalla macchina e mi avvicinai, credendo che vestito da militare non mi avrebbe mai riconosciuto. Quando fui vicino Roberto mi abbracciò, mi chiamò per nome, feci una foto con lui. Anzi, pretese che anche i tifosi juventini fotografassero anche il sottoscritto.
Ha conosciuto anche Giuseppe Marotta...
Certo! Il Peppe, per il gruppo giovani emergenti del Varese; per noi, gruppo veneto, era il Pepy. Ricordo un ragazzino scaltro e intelligente. Iniziò a venire a vedere 15enne i nostri allenamenti ai campetti di Gazzada e Cassinetta. Recuperava i palloni che finivano nei campi agricoli confinanti. Ci fu subito simpatico. Iniziò poi a pulire gli spogliatoi, le scarpe, a mettere a posto le maglie. Era volenteroso, ma sopratutto sapeva farsi voler bene, era spigliato ed empatico. Ricordo che venne con noi in ritiro ad Asiago: la società volle premiarlo per il suo impegno. Poi la sua storia la sanno tutti, ma Pepy iniziò come raccattapalle volontario.
Lei è ancora molto amico di Marini: quando è nata questa grande amicizia?
Dal Collegio. Pieretto era molto diligente, sveglio, aveva già il pallino dell’economia, era un autodidatta. Poi magari chiedeva qualcosa a Valmassoi che frequentava economia e commercio. La nostra amicizia continuò anche perché entrambi eravamo in Nazionale militare. A Pieretto non piaceva guidare, perciò al ritiro di Roma andavamo con la sua 124 Sport e io guidavo mentre lui sonnecchiava. Ricordo che quando tornavano a casa, suo padre, una persona magnifica, straordinaria, ci aspettava con la tanica per mettere benzina alla macchina. Allora di notte non erano aperti i distributori. Il papà di Marini si preoccupava di non far prendere freddo al figlio e controllava sempre se indossasse la canottiera: aveva questa paura e senso di protezione verso il figlio perché era stato in Russia durante la guerra, soffrendo fame e freddo.
Cosa le ha lasciato il calcio?
Bellissimi ricordi e tanti rimpianti. Ma sopratutto tantissime amicizie vere. Per me il calcio era divertimento, era un gioco, ho accettato la mia sfortuna e mi sono preparato a mettermi alle spalle i rimpianti ed ad affrontare la vita. Fortunatamente il Varese mi ha fatto studiare e diplomare. Sono rientrato in Veneto, nel mio paese, mi sono sposato, ho lavorato per oltre 30 anni come geometra di edilizia scolastica a Venezia. Non mi sono mai sentito arrivato. Questo è il messaggio da far passare ai giovani ragazzi che giocano al calcio. In un attimo sei in serie A, poi ti trovi infortunato e girato in una serie minore e se non prepari un altro piano di vita è facile rimanere al margine. Lo sport è come la vita: in un attimo sei alle stelle e il giorno dopo finisci nel dimenticatoio. Gli amici del calcio di allora mi sono rimasti; anzi, covid permettendo, organizzerò a fine estate la seconda cena dei giovani gladiatori di un tempo. Passerò a prendere Marini, che forse avrà cambiato auto, ma non l’abitudine di indossare la maglietta della salute tanto cara al suo papà, simbolo di un'Italia del dopoguerra sempre disponibile a dare una mano a tutti.